Zeitschrift Aufsätze

Luigi Nuzzo

Memoria, identità e uso pubblico della storia: l’invenzione del derecho indiano

Diritto alla memoria e identità perdute

1Il 16 dicembre del 2010 gli Stati Uniti d’America hanno riconosciuto la Dichiarazione universale delle popolazioni indigene. Il loro riconoscimento segue quello di Canada, Australia, Nuova Zelanda e rafforza le speranze di chi vede nella Dichiarazione uno strumento importante per la difesa dei diritti delle popolazioni indigene e per riparare le ferite che la storia ha inferto loro. La Dichiarazione, come è noto, era stata approvata dalla Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2007 con il voto contrario proprio di Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda e l’astensione di 11 paesi. Non è stato facile giungere all’approvazione per le resistenze di molti Stati a riconoscere le popolazioni native che vivevano all’interno dei loro territori come nazioni titolari di diritti collettivi1. Già nel 1982, infatti, sull’onda di un rinnovato interesse che le Nazioni Unite e in particolar modo la Commissione diritti umani avevano manifestato per la tutela dei diritti delle popolazioni indigene, era stata istituito presso la Sottocommissione sulla prevenzione della discriminazione e la protezione delle minoranze un apposito gruppo di lavoro, formato dai rappresentanti delle popolazioni indigene. Nel 1993 il Working group on indigenous populations, questo era il suo nome, approntò e presentò alla Sottocommissione un primo progetto che approvatolo l’anno successivo lo sottopose a sua volta Commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite2. Dopo ‘solo’ dodici anni il progetto fu approvato. Si tratta dunque di una lunga storia della quale non intendo ricostruire le tappe o gli snodi fondamentali, né affrontare i problemi teorici e pratici che essa ha portato con sé3. Assumerò invece la Dichiarazione come punto di partenza per una riflessione più generale sul diritto indiano e sulle prospettive di ricerca che essa può suggerire a giuristi e storici del diritto.

2 La Dichiarazione universale delle popolazioni indigene si fonda sulla memoria. Presuppone la difesa della memoria come strumento per la definizione della identità indigena e la tutela dei diritti indigeni. L’individuazione di una nuova soggettività giuridica, il popolo indigeno, un soggetto collettivo di cui si riconosce il pieno diritto alla autodeterminazione, è possibile solo riconoscendogli il diritto di manifestare, praticare, insegnare le proprie tradizioni culturali, celebrare le proprie cerimonie spirituali e religiose, trasmettere la propria storia, la propria cultura, la propria lingua alle generazioni future. Nel testo non vi è una definizione di popolo indigeno. Ciò non deve stupire anche nel progetto del 1993 mancava. In realtà non c’è ne bisogno. Questo nuovo soggetto non ha bisogno di definizioni così come non chiede riconoscimenti o legittimazioni statali. Può farne a meno perché è già dato, è un soggetto storico che preesiste agli Stati. Ma rivendica, proprio attraverso l’uso della memoria, il mantenimento e il rafforzamento delle proprie strutture politiche, sociali, normative4.

3Per tornare ad esistere come popolo bisogna ricordare dunque. Ma il ricordo non è la memoria. È una parte della distinzione con cui opera la memoria. L’altra è il dimenticare. La memoria si fonda infatti su una serie di operazioni selettive di ricordo e dimenticanza. Come ha scritto Raffaele De Giorgi è l’unità della distinzione tra ricordare e dimenticare5.

4Ricordo e oblio costituiscono le distinzioni con cui opera memoria e allo stesso tempo potremmo dire, con qualche semplificazione, costituiscono i due poli intorno ai quali si articola rispettivamente il discorso indigenista e quello coloniale e dai quali si sono sviluppate nel corso del tempo, in modo diverso, le strategie per l’affermazione o la negazione di una soggettività indigena. In altri termini, fuori dalla memoria, ricordo e oblio divengono le condizioni che rendono possibile o impossibile l’esistenza di un soggetto giuridico indigeno. Solo la memoria di sé e della propria storia produce identità e dunque soggettività. Al contrario coloro che non hanno memoria o coloro ai quali quella memoria è stata rubata o sovrascritta non esistono. Lo ricordò con grande efficacia Franz Fanon molti anni fa, aprendo una conferenza sul rapporto tra cultura nazionale e lotte di liberazione. Per Fanon il dominio coloniale aveva prodotto una «obliterazione culturale», aveva cioè disconesso i popoli sottomessi dalla propria cultura attraverso la negazione della realtà locale, l’introduzione di nuovi rapporti giuridici e il loro sistematizzato asservimento6. Le conseguenze erano state devastanti. La consapevolezza dell’impossibilità di divenire bianco o di liberarsi dalla propria odiata negritudine aveva condotto ad uno spiazzamento dell’io coloniale, ad una sua irreparabile schizofrenia identitaria. Molto anni dopo nella riflessione postcoloniale le incertezze identitarie sono divenute un punto di forza7. La ricostruzione del proprio passato attraverso un lungo e doloroso processo di rimemorazione, da un lato, ha confermato l’impossibilità di ricongiungersi con la propria identità originaria, dall’altro è stato lo strumento per immaginare una nuova soggettività ibridizzata in cui si sciogliessero senza residui le identità del colonizzato e del colonizzatore. In questo modo diveniva possibile superare il conflitto tra il «Sé coloniale e l’Altro colonizzato» e allo stesso tempo affermare sia la reciproca dipendenza delle due identità prima contrapposte, sia la loro continua fluidità e indeterminatezza. Paradossalmente proprio nel momento in cui le strategie del capitalismo globale ribadivano l’unicità del mondo e ne fornivano una rappresentazione pacificata, fondata ancora sul rapporto dialettico tra i contrapposti concetti di centro e periferia, gli studi subalterni ne svelavano la violenza più profonda. Essi costruivano una teoria della subalternità che, partendo dal concetto gramsciano di egemonia, superava la logica binaria primo mondo/terzo mondo, colonizzatore/ colonizzato e passava dalla dialettica sé/altro alla disseminazione delle immagini di sé e dell’altro. Ne è emersa una soggettività nuova, ibridizzata appunto, che ha risolto nel corpo di un nuovo protagonista quelle contrapposizioni sulle quali la modernità coloniale aveva costruito il suo discorso e che chiedeva di essere l’artefice della propria storia8.

5La battaglia politica per il riconoscimento della propria diversità e di un proprio diritto memoria ha imposto quindi nuovi approcci storiografici. Ad essi è stato affidato il compito di svelare sia l’indadeguatezza delle categorie giuspolitiche del pensiero occidentale per la comprensione della complessità del mondo, sia i rapporti di forza che preesistevano al loro utilizzo e che avevano inciso in modo determinate nella selezione dei fatti da raccontare e nel modo con cui erano stati raccontati9. Nello stesso tempo il rinnovamento metodologico che proveniva dai postcolonial e subaltern studies e l’attenzione verso le problematiche coloniali hanno superato agilmente i confini spaziali e teorici in cui si erano sviluppati, e hanno permesso di rendere più complessi gli stessi canoni narrativi della storiografia occidentale e le pratiche discorsive con cui gli internationalisti hanno costruito il diritto internazionale10.

6Molto però è ancora da fare e lo strano caso del derecho indiano sembra confermarlo.

Alla ricerca dell’identità: García Gallo e la ‘rifondazione’ di una disciplina

7Non è semplice tradurre l’espressione derecho indiano, né del resto dire che cosa sia. Forse è più semplice che cosa non sia. Il dercho indiano non è un diritto indigeno. Carlos Petit lo ha definito maliziosamente una versione esotica del ius commune e Bartolomé Clavero, più polemicamente, un «derecho generado o reconocido por parte de Europa para dicha geografía y dicha humanidad, como si ésta careciera de cultura y así de capacidad para regirse por sí misma, así como para determinar la reglas de recepción y acomodamiento de la gente sobrevenida y extraña de entrada para ella»11.

8La stessa espressione derecho indiano, poi, è stata il frutto di un’invenzione. Assolutamente sconosciuta ai giuristi del XVI, XVII e XVIII secolo che preferivano parlare di derecho de las indias o de los Reynos de Indias essa era nata dalla penna dell’argentino, il padre fondatore – con lo spagnolo Rafael Altamira – della disciplina. Il significato era tuttavia il medesimo12. Al di là di ogni differenziazione tra un diritto indiano in senso stretto, identificato nelle disposizioni normative emanate appositamente per i nuovi possedimenti e un diritto indiano in senso più ampio, comprensivo anche delle norme di diritto castigliano trapiantate in America, l’aggettivo indiano fu usato per indicare tutto il diritto vigente nelle Indie Occidentali e Orientali. Si trattava di un complesso normativo estremamente ricco, composto da norme di provenienza e di natura diversa, che confluivano, concordavano gli indianisti, in un sistema unico in grado di «organizar el gobierno espiritual y temporal de las indias, establecer la condición de sus habitantes, regular la navegación y el comercio y sobre todo convertir a los indigénas a la fé católica»13.

9La fedeltà all’idea di sistema e la condivisione degli obiettivi che il diritto indiano avrebbe permesso di conseguire non ha portato però ad una univocità delle rappresentazioni storiografiche. Con qualche semplificazione potrei dire che fino alla fine degli anni settanta, fino a quando cioè ha dominato incontrastato l’approccio positivistico di Alfonso García Gallo, il sistema del diritto indiano si è fondato sul primato della legislazione castigliana e su un’immagine della monarchia spagnola in cui erano visibili sin dall’inizio i segni della statualità moderna. Poi con la fine del franchismo, l’appannarsi dell’astro di García Gallo e l’ingresso della Spagna in Europa è stato possibile riscoprire anche le componenti giurisprudenziali e consuetudinarie dell’esperienza giuridica medievale ed anche la storia giuridica spagnola, peninsulare ed indiana, è apparsa scorrere nei binari rassicuranti del diritto comune e di una condivisa tradizione giuridica europea14.

10Iniziamo da García Gallo. La storia del diritto nei paesi di lingua spagnola è segnata dalla sua presenza, dalla sua instancabile attività nella penisola iberica come nell’America latina e da una ricchissima produzione scientifica15. Capace di farsi carico dell’eredità di Edoardo de Hinojosa y Naveros e di mitizzarne la figura, di sentirsi suo discepolo e nello stesso tempo di criticare metodologicamente il lavoro del maestro e della sua stessa “scuola”, García Gallo si assunse l’onere di progettare una nuova storia del diritto, pensandola in primo luogo come una disciplina scientifico – giuridica, e di fare dello storico del diritto un giurista e uno scienziato. Le prime immagini di questa rinnovata storia del diritto spagnolo come scienza giuridica furono messe a fuoco tra il 1948 e il 1952 in due pubblicazioni dedicate a Hinojosa, una introduttiva della riedizione completa delle opere del maestro, e, l’altra, frutto di una conferenza tenuta all’Instituto nacional de estudios jurídicos, e poi pubblicata l’anno successivo nell’Anuario de historia del derecho español16.

11L’operazione metodologica che García Gallo si proponeva non era affatto semplice: si trattava di introdurre l’opera di Edoardo de Hinojosa y Naveros, di commemorarne il centenario della nascita e nello stesso tempo di tracciare le linee guida della propria storia del diritto. Si trattava di imporre una svolta attraverso il profondo rinnovamento dell’armamentario concettuale utilizzato dalla storiografia giuridica spagnola, compreso quello di Hinojosa e della sua “scuola”, ma di occultare i cambiamenti di prospettiva ai quali lavorava all’interno di un discorso e di una rappresentazione che privilegiasse, sia sul piano politico, sia sul piano giuridico, le continuità piuttosto che le fratture17.

12La storia del diritto era una vera e propria scienza giuridica che per essere raccontata aveva bisogno di una sua propria metodologia. Ciò avrebbe permesso, da un lato, di rendere la riflessione giuridica libera dai condizionamenti provenienti dalla politica, dall’economia e più in generale dal contesto socio culturale e, dall’altro, di individuare nel giurista il principale interlocutore dello storico del diritto. Del resto anche lo storico del diritto era un giurista e come tale doveva avvertire l’obbligo di sottrarre il suo oggetto, il diritto appunto, alle suggestioni che giungevano da altre discipline, ed in particolare di liberarlo da contaminazioni culturali che, provenienti in quegli anni soprattutto dalla scuola francese delle Annales, ne avrebbero alterato l’identità.

13Identità: ecco il punto.

14Egli ricostruendo il percorso attraverso il quale si erano formati gli ordinamenti e le istituzioni non parlava del diritto di un tempo lontano, ma di un diritto attuale che disciplinava quotidianamente ogni aspetto della vita sociale. Allo storico quindi affidava il compito delicato di ricordare e di selezionare ciò che poteva concorrere alla formazione della memoria e dell’identità del giurista e del paese e ciò che ancora una volta era da condannare all’oblio.

15Nell’ambito del diritto indiano i problemi con cui lo storico del diritto era chiamato a confrontarsi non erano differenti e anche in questo caso la ridefinizione dell’identità disciplinare continuava ad essere il suo obbiettivo principale. Tuttavia mentre in Spagna egli aveva individuato in Hinojosa il fondatore della disciplina, aveva contribuito a mitizzarne il profilo e si era rappresentato, attraverso un preciso progetto metodologico incarnato anche in una rivista, come suo erede, nell’America Centro – meridionale l’assenza (dalla sua sua prospettiva ovviamente) di una scuola formata nel rispetto di un rigoroso metodo giuridico, lo portava a proporsi come il vero fondatore del diritto indiano18.

16All’inizio degli anni Cinquanta García Gallo mise a punto la sua strategia. Esaltò il ruolo della legge come fonte del diritto nelle Indie del XVI e sottopose ad una dura critica le metodologie impiegate dagli storici del diritto nello studiare il derecho indiano19. Pur riconoscendo la centralità e l’importanza nella disciplina di Rafael Altamira e soprattutto di Ricardo Levene, anche egli come Hinojosa in Spagna «maestro de todos», le aperture alla storia, alla sociologia, alla politica che caratterizzavano l’approccio dei due studiosi avevano pregiudicato inesorabilmente anche l’oggetto dei loro stessi studi. Mancava in essi, secondo García Gallo, il senso giuridico, il riconoscimento della centralità del momento giuridico, la volontà di studiarlo «con espíritu y técnica de juristas»20. «La vocación histórica o sociológica de la mayor parte de los cultivadores estudiosos de la Historia del derecho indiano les lleva a atender a los fenómenos sociales con olvido de los propiamente jurídicos y a no valorar estos en su propio alcance sino con criterio extraño al derecho. La construcción dogmática, que constituye la tarea principal de los juristas científicos —se ocupen del derecho romano, medie- val o del actual— apenas se ha intentado. [...] El estudio dogmático perfectamente compatible con el histórico del derecho indiano, tarea que incumbe a los juristas y no a los historiadores está sin hacer [...]. La Historia del Derecho debe ser para el jurista un modo de conocer el Derecho, y no la Historia o la sociología. Por ello ha de estudiarse con orientación, espíritu y técnica jurídica»21.

17Lo storico del diritto indiano era dunque tenuto ad impegnarsi per riscoprire la sua identità e quella della sua disciplina, e a contribuire alla formazione di una coscienza nazionale attraverso la ricostruzione della storia del proprio «diritto positivo nazionale». Poiché anche il diritto aveva una sua identità era necessario leggerlo nella sua evoluzione, dimenticando le preoccupazioni storiche e sociologiche, e comprimendo l’attenzione predominante per gli aspetti politici, sociali, economici22. Di conseguenza anche la storia del diritto indiano, troppo a lungo affidata solo agli storici e lontana dalle attenzioni dei giuristi, doveva essere considerata una disciplina scientifica, in quanto il diritto che ne era oggetto, più che semplice tecnica, era vera scienza. Un sapere neutrale e avalutativo in grado di tradurre in leggi e concetti giuridici valori generali, la cui legittimità si fondava sulla distanza che lo separava dal mondo violento della politica e degli scontri socioeconomici e sulla capacità di costruirsi e rappresentarsi come un sistema unico, chiuso e autoreferenziale, in grado di trovare in sé la ragione immanente della propria verità.

18Il derecho indiano era dunque essenzialmente un sistema legislativo23.

19In un organismo territoriale che, al pari di quanto accadeva nella Francia del XVI secolo, assumeva forme statali e in cui i principali teologi, giuristi e pensatori politici partecipavano attivamente al processo di centralizzazione assolutistica e burocratica, la legge sembrava lo strumento più adatto per realizzare la volontà del sovrano, rinnovandone la centralità e, nello stesso tempo, il segno più chiaro di una nuovo anelito civilizzatore24. Da un lato quindi la tensione giuspositivistica e le aspirazioni statualistiche introducevano un paradigma legale funzionale ad una rilettura in chiave unitaria di ogni discorso sul potere e sui soggetti politici anche non istituzionali attivi nelle Indie.

20D’altro lato la dimensione legalistica in cui veniva assorbita la Conquista consentiva alla storiografia di introdurre una frattura tra le aspirazioni della monarchia per la difesa dei diritti dei nativi, la sua attenzione costante per la loro evangelizzazione e la violenza della realtà indiana. Le leggi di Burgos e Valladolid, le Leyes Nuevas, le Ordenanzas del 1573, solo per citare alcuni degli esempi più noti, traducevano le preoccupazioni religiose dei sovrani, riflettevano l’impegno assunto da Ferdinando e Isabella con Alessandro VI, e poi ribadito sia da Carlo V sia da Filippo II, e davano avvio ad un circuito virtuoso tra tre poli: le cancellerie imperiali e i giuristi della Corona, le aule e i teologi di Salamanca, i territori e le popolazioni indiane. Aspirazioni cristiane, ragionamenti politici e logiche giuridiche concorrevano nel definire il loro status, permettendo ancora negli anni settanta, a Morales Padrón di vedere nelle leggi di Burgos «el primer cuerpo básico del estatuto indigena», e a García Gallo di giustificare la coesistenza, in questo corpo normativo fondamentale, del riconoscimento dell’umanità e della libertà dell’indigeno con il mantenimento del sistema dell’encomienda25.

Alla ricerca dell’identità: Francesco Calasso e il sistema del ius commune

21La costruzione di un’identità giuridica nazionale e il progetto di rinnovamento metodologico della storia del diritto perseguiti da García Gallo imponevano dunque il recupero e l’esaltazione dei profili istituzionali e dell’attività legislativa svolta dai sovrani di Castiglia. Per il raggiungimento di questi obiettivi era necessario però procedere anche anche ad un profondo ripensamento del ruolo svolto dal diritto romano in Spagna e della sua eredità.

22La Spagna franchista imponeva una storia (anche giuridica) orgogliosamente differente da quella europea. Si trattava di una storia cristiana e nazionalista, incentrata sul primato della legislazione e dello Stato e in cui del ius commune si udiva soltanto l’eco. Attraverso la Ley de las sietes partidas, la grande compilazione di Alfonso X del 1265, la tradizione romanistica e canonistica era penetrata infatti anche nel regno di Castiglia e da qui nelle Indie, ma piegata ad una precisa politica del diritto rivolta all’unificazione territoriale e combinata con diritti ed usi locali, era divenuta un diritto comune dal carattere nazionale.

23In Spagna, sostenne García Gallo in una conferenza tenuta a Roma alla metà degli anni ’50 e pubblicata nella Revista de estudios politicos, il diritto comune era entrato in crisi per la prima volta, lasciando emergere la sua incapacità nell’offrire risposte appropriate alle nuove esigenze. L’esperienza americana ne aveva poi svelato impietosamente l’inadeguatezza26. I suoi principi, continuava, furono utilizzati per incorporare le Indie alla Corona di Castiglia e per definire i titoli giuridici che ne legittimassero il dominio. Ma quando raggiunsero le coste indiane attraverso il Requerimiento la loro debolezza divenne palese e fu sufficiente la sprezzante risposta di due caciques del Cenú per mettere in discussione l’intero sistema27.

24Come narra Fernandéz de Oviedo, al termine della lettura del documento i due indigeni negarono la validità della donazione di Alessandro VI e, di conseguenza, la legittimità del dominio rivendicato dai sovrani spagnoli, ribadendo al contrario i loro diritti su quelle terre. García Gallo li immaginò e ce li rappresentò «firmes en sus convicciones jurídicas», e ritenne la loro risposta «consciente y concluyente: la validez del derecho común fue rechazada y a él opuso el propio derecho indígena». Le conseguenze di quel gesto sarebbero state enormi. «Por primera vez se negaba al derecho común su vigencia universal y se le rechazaba en la resolución de los problemas del Nuevo Mundo»28.

25Nelle foreste umide del Cenú e per un pubblico, come quello italiano, con poca famigliarità con le Indie, García Gallo, dunque, mise in scena la fine ingloriosa di un sapere giuridico universale, carico di trionfi in Europa, ma nello stesso tempo sottolineò che le insufficienze del diritto comune avevano anche determinato una salutare «reazione spagnola». E le risposte, questa volta adeguate, non si erano fatte attendere. Sul piano dottrinale Francisco de Vitoria aveva sostituito il diritto comune con il «sistema» del ius gentium e sul piano legislativo la Corona aveva emanato un’imponente legislazione, ispirata dalle tensioni sistematiche e dalle aspirazioni cristiane del vecchio diritto comune, che ne aveva positivizzato la memoria e neutralizzato gli aspetti più odiosi attraverso il riconoscimento dei principi di libertà e di indipendenza delle popolazione autoctone.

26Non so se quel giorno fosse stato invitato ad assistere alla lezione di García Gallo anche Francesco Calasso, storico del diritto e preside della facoltà giuridica della Sapienza romana e che cosa avrebbe potuto pensare sia delle critiche che il giurista spagnolo riservava alla tradizione del diritto comune, sia dei ‘prestiti’ e dalle influenze da cui non era riuscito a sfuggire.

27Nonostante infatti il suo progetto di rinnovamento metodologico imponesse il ridimensionamento del ruolo svolto dal diritto comune o presupponesse la sua completa nazionalizzazione, esso non poteva prescindere proprio dall’idea di sistema che Francesco Calasso aveva impiegato per attribuire carattere scientifico all’esperienza giuridica medievale e per ricomporre in un quadro unitario il diritto romano canonico e diritti particolari.

28Le differenze certo non erano di poco conto. La costruzione teorica di García Gallo, semplicisticamente fondata sul binomio leggi e nazione, era lontana dalla raffinata dottrina del giurista italiano. Entrambi, tuttavia, condividevano l’obiettivo di ridefinire l’identità della disciplina e utilizzare la storia del diritto come strumento per la costruzione di una identità giuridica nazionale. La proposta storiografica di Calasso imponeva il recupero della storicità del diritto medievale e la ricostruzione del tessuto di relazioni economiche, politiche sociali in cui erano immersi i testi giuridici e i loro autori. Non era più il tempo per una storia del diritto romano nel medioevo, per riproporre vecchie contrapposizioni tra romanisti e germanisti (o italianisti) o per sterili esercizi di ricostruzione dogmatica. Nel medioevo infatti «uno spirito nuovo» si era ormai impossessato del vecchio corpo del diritto romano, vi aveva infuso nuove energie e ne aveva determinato una trasformazione profonda, riunendolo «alla propria esperienza» «alle proprie istanze» e «rivivendolo ed esaltandolo come norma del proprio operare»29. Il diritto comune, e non più il diritto romano, era la cifra dell’esperienza giuridica medievale e gli storici del diritto italiano i suoi autorizzati cantori. Non si trattava solo di un problema disciplinare o di una battaglia accademica tesa ad ottenere un maggiore spazio per la storia del diritto italiano nelle facoltà giuridiche. Interrogarsi sulla storicità del diritto comune significava infatti riflettere sull’esistenza stessa di un diritto italiano svincolato dallo stato italiano, riconoscere un’identità giuridica italiana già prima dell’unificazione nazionale30.

29Seguendo la teoria istituzionalistica di Santi Romano, Calasso identificava il diritto con l’ordinamento giuridico e ne sosteneva la pluralità. «La constatazione della pluralità, però, come ha scritto Pietro Costa, non era per Calasso la conclusione dell’indagine, ma la sua premessa; serviva a porre correttamente un problema, che per Calasso è il problema rispetto al quale le considerazioni ‘istituzionalistiche’ sono strumentali: questo problema è il problema dell’unità»31. La costruzione di una storia giuridica nazionale imponeva infatti la ricomposizione della pluralità all’interno di un ordinamento unitario. Il ius commune riuniva le storie in un’unica grande storia italiana e appariva ai suoi occhi un ordinamento di ordinamenti. Nello stesso tempo tuttavia l’idealismo crociano e la stessa teoria di Romano non gli permettevano di liberarsi dalle immagini di Stato e di legge e lo conducevano considerare il sistema del diritto comune un sistema legislativo, o per lo meno a ritenere prevalente la componente legislativa32. La storia del diritto comune era allora la «storia di questo sistema unitario, e non soltanto del diritto romano comune, e meno ancora della scienza del diritto o della giurisprudenza. Chè infatti, scienza e giurisprudenza furono l’organo potentissimo della evoluzione del sistema: ma essendo questo un sistema legislativo, la posizione dommatica dell’attività del giurista o del giudice vi rimase sempre ed esclusivamente quella di attività interpretativa, sul fondamento logico e giuridico, e quindi con tutte le norme e i limiti che ogni attività interpretativa può avere in un sistema legislativo»33.

30Calasso, dunque, aveva colto la storicità del diritto medievale e ne aveva sottolineato la specificità rispetto al diritto romano opponendosi, prima, agli approcci dogmatici della pandettistica e poi ai rigurgiti neopandettisti degli anni cinquanta, ma per trasformare quel ‘nuovo’ diritto in un sapere scientifico e in uno strumento di legittimazione di una disciplina in cerca di riscatto nell’accademia europea, aveva bisogno di recuperare da Savigny la nozione di sistema. Del sistema anche per Calasso non era possibile fare a meno. Indipendentemente infatti dalla sua connotazione, legislativa o anche dottrinale, esso non veniva identificato con un principio logico necessario per l’esposizione e l’organizzazione degli argomenti, o con un prodotto storico, funzionale ad un preciso progetto politico giuridico. Al contrario esso era da un lato un principio costitutivo del diritto e da esso non si sarebbe potuto prescindere pena la perdita di scientificità e di verità del proprio discorso e del proprio oggetto; dall’altro esso era un modello interpretativo in grado di selezionare gli eterogenei materiali normativi che avrebbe dovuto coordinare e capace di costruire la realtà che era chiamato a descrivere34.

31Nel 1951, nello stesso anno in cui alcuni dei lavori fondamentali che Calasso aveva dedicato al problema del diritto comune nel corso degli anni trenta vennero raccolti in un volume dal titolo Introduzione al diritto comune, apparve nel Anuario de Historia del derecho español, un saggio di García Gallo sul concetto di legge e sul suo ruolo nel sistema delle fonti nelle Indie del XVI. Allo studioso spagnolo non sfuggi la novità editoriale italiana, non mancò di citarla e di indicarla ai suoi allievi come una lettura fondamentale35. Per la costruzione di un concetto unitario e scientifico di derecho indiano quelle pagine gli erano necessarie, fornivano l’intelaiatura concettuale per tenere insieme il vecchio diritto castigliano esteso nelle Indie e il nuovo diritto emanato appositamente per i territori d’oltre Oceano. In una rappresentazione che non aveva bisogno del diritto comune né come diritto romano, perché già nazionalizzato, né come diritto prodotto dall’interpretazione dei giuristi, perché proprio Calasso aveva provveduto a svilirne la dimensione creativa, e che si era liberata sia della storicità sia della spiritualità nelle quali invece lo storico leccese lo aveva immerso poiché ogni tensione storica e religiosa era stata già selezionata e positivizzata, rimanevano uno di fronte all’altro solo due ordinamenti normativi, il castigliano e l’indiano, e con essi il ‘vecchio’ problema dell’unità36.

32La soluzione allora era in quelle pagine, nell’idea di sistema che esse teorizzavano e in quella di Stato che ancora evocavano. Leggi castigliane e leggi indiane, al pari del ius commune e del ius proprium costituivano gli elementi che, all’interno di una cornice statuale, una tensione dialettica tra generale e particolare, tra comune e speciale poteva legare intrinsecamente ed organicamente in un sistema unitario37.

33La fine del regime e il superamento dell’approccio nazionalista che caratterizzò la storiografia giuridica spagnola permisero, prima, la riscoperta del diritto comune e, poi, la sua proiezione nelle Indie, immaginando anche al di là dell’Oceano un’entità sistemica unitaria, organicamente costruita ed incentrata, al pari di quanto sembrava avvenire nella respublica christiana, sul rapporto dialettico generale e particolare. Tuttavia prima di seguire il ius commune nel suo viaggio transoceanico, è opportuno soffermarci ancora sulle novità editoriali apparse in Europa all’inizio degli anni cinquanta. Mentre Calasso infatti, riscriveva la storia giuridica medievale attraverso il concetto di diritto comune e García Gallo inglobava le Indie all’interno di un sistema legislativo, cristiano e nazionalista, Carl Schmitt pubblicò Il Nomos della terra38. Riprendendo i temi internazionalistici e l’approccio spaziale alla politica su cui aveva cominciato a lavorare a partire dalla metà degli anni venti del Novecento, ma senza la carica polemica dei primi lavori39, il giurista tedesco tracciava la storia dello jus publicum europaeum dalle sue origini avventurose fino alla sua dissoluzione. La storia di Schmitt raccontava l’identità perduta dell’Europa sotto i colpi del formalismo kelseniano e dell’universalismo giuridico ma esprimeva anche, nel rapporto tra Ordnung e Ortnung che assumeva come archetipo narrativo, l’auspicio di nuove linee di amicizia e con esse di un nuovo nomos e di un nuovo processo di suddivisione spaziale.

34Le rivendicazioni americane di un nuovo emisfero occidentale, l’equiparazione tra territori coloniali e territori metropolitani, il passaggio da un diritto e un ordine europeo ad un diritto e un ordine mondiale sancito dalla conferenza di pace di Parigi e dalla Lega di Ginevra, il ritorno ad un concetto discriminatorio di guerra e all’identificazione premoderna del nemico con criminale avevano determinato la dissoluzione del sistema politico-giuridico su cui si erano rette le relazioni europee per quattrocento anni. Esso aveva avuto negli stati territoriali i suoi protagonisti e nella scoperta del nuovo mondo il suo presupposto. I viaggi di Colombo avevano permesso all’Europa di venire a conoscenza di uno spazio libero e immenso pronto per essere testualizzato ed occupato. Le Bolle di Alessandro VI furono lo strumento per raggiungere questi obiettivi: ricondussero i territori americani e l’Oceano all’interno di un testo giuridico, ne permisero l’occupazione da parte della Spagna e del Portogallo e individuarono, con gli atti di presa di possesso e di distribuzione delle terre, un «ordinamento concreto», fissarono cioè un principio fondativo in grado di organizzare le comunità politiche e di giustificare la positività del diritto40. Come è noto il pontefice concesse le nuove terre ai sovrani di Castiglia affinché diffondessero la parola di Cristo e avvicinassero gli indigeni alla religione cattolica, costituendo così in capo a Ferdinando e Isabella un pesante obbligo morale e un valido titolo giuridico che legittimava la presenza spagnola nei confronti dei nativi come delle altre potenze europee. Con un secondo provvedimento poi aveva definito l’ambito spaziale del dominio spagnolo. Una linea che correva dal polo nord al polo sud cento miglia ad ovest delle isole Azzorre individuò infatti due distinte zone di espansione, riservate una (ad ovest della linea) agli spagnoli, l’altra (a est della stessa linea) ai portoghesi, e allo stesso tempo localizzò la spazialità vuota e non qualificata delle Indie e dell’Oceano attraverso l’opposizione a quella piena e articolata della romanità cristiana.

35Di quello spazio vuoto l’Europa aveva bisogno per la sua stessa esistenza. «La civiltà europea – ha scritto Carlo Galli – esiste solo perché è in grado di impossessarsi del nuovo mondo, di occuparlo, di spartirlo, e di confinare là – nello spazio del non Stato – l’inimicizia assoluta; la limitazione della guerra nell’Europa degli Stati, che si riconoscono l’un l’altro come hostes aequaliter justi, è resa possibile dalle guerre illimitate condotte contro i nativi in America (ma anche in Asia e in Africa) e anche fra le potenze europee tra di loro, fuori dal continente europeo»41. Per la definizione del nuovo nomos della terra le rayas di Alessandro VI però non erano sufficienti. Tracciate sull’Oceano esse ne ignoravano la diversità, avevano una funzione semplicemente distributiva e continuando a riconoscere al pontefice un’autorità sovraordinata comune affermavano ancora l’unità della respublica christiana.

36L’emersione di un nuovo ordine richiedeva invece una vera e propria rivoluzione spaziale. Imponeva il superamento di quella unità. Per Schmitt ciò fu possibile solo con la discesa in campo dell’Inghilterra, «l’isola che si fece pesce», e grazie alla spinta di una nuova «religione di lotta» il calvinismo42. Le amity lines, le linee di amicizia franco inglese comparse per la prima volta in una clausola segreta del trattato di Cateau Cambresis, sancirono definitivamente la scomparsa di un mondo e definirono la struttura del diritto internazionale europeo. Esse affermarono l’esistenza di due spazialità ormai contrapposte: una, la terra europea, regno del diritto e della pace, e l’altra, l’Oceano e i territori ancora ignoti al di là del mare, libere dal diritto e dall’efficacia dei trattati internazionali, veri e propri permanenti teatri di guerra nei quali sfogare le pulsioni belliche e coloniali dell’Occidente. Beyond the line ora tutto diveniva possibile. Oltre la linea non ci poteva essere pace e gli accordi stipulati tra le potenze europee erano privi di ogni efficacia43.

37Quattrocento anni dopo la dissoluzione dello ius pubblicum europeum e la crisi profonda dei soggetti politici su cui esso si era fondato imponevano la ricerca di un nuovo nomos. La prospettiva, tuttavia, rimaneva quella spaziale. In una conferenza dal titolo La unidad del mundo, tenuta in Spagna ancora una volta nel fatico 1951, Schmitt auspicava l’avvento di una «tercera fuerza» – l’India, l’Europa, il Commonwealth britannico, il mondo ispanico, il blocco arabo o un’altra forza ancora non individuata – che rompendo il dualismo «inquietante» Est/Ovest, comunismo/capitalismo aprisse nuove prospettive macrospaziali e con esse rendesse possibile l’individuazione di un principio per il loro riequilibrio e la definizione di un nuovo diritto internazionale44.

38Un diritto nuovo ma con chiare analogie con «il diritto delle genti europeo dei secoli diciotto e diciannove». Anche quest’ultimo, infatti, «se basaba en un equilibrio de potencias, gracias al cual se conservaba su estructura. Tambien el ius publicum europaeum implicaba una unidad del mundo. Era una unidad Europeocéntrica, no era el poder político centralista de un único dueño de este mundo, sino una formación pluralista y un equilibrio de varias fuerzas»45.

39Per ricomporre l’unità del mondo, tuttavia, era necessaria anche una nuova filosofia della storia intimamente cristiana che, come un nuovo katechon, superasse il dualismo tra la filosofia della storia marxista e il debole relativismo storico occidentale fondato sulla fede del progresso e della tecnica e offrisse, attraverso «irrupción concreta de lo eterno en el tiempo», una risposta ferma all’avanzata del materialismo dialettico46.

40La Spagna franchista era lo spazio geografico e spirituale dal quale partire per ricostruire l’identità europea e raggiungere questi due impegnativi obiettivi. Tutto aveva avuto inizio in Spagna e tutto dalla Spagna sarebbe potuto ricominciare. La conquista spagnola del nuovo mondo e la riflessione di Francisco de Vitoria avevano portato alla fondazione scientifica e culturale di un nuovo diritto delle genti, producendo il primo cambio di struttura del diritto internazionale47. Dopo la fine della seconda guerra mondiale in un’Europa confusa e stretta tra imperialismo economico di matrice anglosassone e totalitarismo comunista la Spagna nazionalista cattolica e ultraconservatrice di Franco appariva a Schmitt l’ultimo baluardo. «È una coincidenza significativa – scrisse Schmitt in una conferenza tenuta a Madrid nel 1962 presso l’Instituto de estudios politicos in occasione della sua nomina a membro onorario – che lo slancio sincero della ricerca mi abbia sempre condotto verso la Spagna. Vedo in quest’incontro quasi provvidenziale una prova in più del fatto che la guerra di liberazione nazionale in Spagna rappresenta una pietra di paragone. Nella lotta mondiale che si combatte oggi essa è stata la prima nazione a vincere con la propria forza e in maniera tale che ora tutte le nazioni non comuniste devono legittimarsi davanti alla Spagna sotto questo aspetto»48.

41Anche la Spagna ricambiò l’interesse che Schmitt dichiarava avergli sempre manifestato49.

42Alla fine degli anni venti Schmitt tenne la sua prima conferenza in spagnolo e cominciarono apparire le prime traduzioni dei suoi testi. Dieci anni più tardi la presa del potere da parte di Franco e la necessità di una più salda legittimazione teorica del regime fecero di Schmitt una presenza costante nel dibattito politico e giuridico spagnolo50.

43La storiografia ha ricostruito i rapporti tra Schmitt e la Spagna e ha evidenziato la recezione e gli utilizzi della teoria giuridica di Schmitt nella penisola iberica51. Recentemente Ignacio de la Rasilla del Moral ha mostrato l’incidenza che ebbe la pubblicazione nel primo numero della Revista de estudios politicos dell’articolo di Schmitt sul concetto di impero nella rappresentazione di un nuovo ordine franchista e ha sottolineato efficacemente come attraverso il giurista tedesco passi «the endogamous linie of continuity» che dai teorici falangisti come Legaz Lecambra e Francisco Conde arriva agli internazionalisti spagnoli del dopoguerra52.

44In queste pagine però non intendo tuttavia ricordare le persistenze, ma evidenziare i silenzi. In Spagna Schmitt era un richiestissimo conferenziere, i suoi testi ebbero traduzioni spagnole, i suoi scritti apparvero nella principale rivista del regime, la sua riflessione teorica giusinternazionalista assunse la conquista spagnola come punto di partenza dello ius publicum europaeum, Vitoria fu uno dei suoi protagonisti, uno storico del diritto Otero Varela suo genero, Álvaro d’Ors, il più importante romanista spagnolo ebbe con lui stretti rapporti d’amicizia, ma né gli storici del diritto indiano sembrarono conoscerlo, né García Gallo lo degnò mai di una citazione53.

45Perché ? Avanzo due ipotesi e lascio al lettore la scelta.

46Il silenzio potrebbe essere un frutto spontaneo del gretto nazionalismo della storiografia giuridica della Spagna franchista poco interessata a ciò che accadeva fuori dai suoi confini e dal proprio recinto disciplinare, o dei limiti scientifici di quella stessa storiografia, incapace di comprendere appieno la forza e le potenzialità della costruzione di Schmitt. Oppure esso poteva essere la conseguenza di una precisa strategia storiografica indirizzata contro l’approccio antinormativista di Schmitt o la rilettura di Vitoria al di fuori degli stereotipi universalistici, e indisponibile a riconoscere nella conquista e nella violenza del Landnahme sia la cifra della presenza spagnola delle indie, sia l’avvio del processo costitutivo dell’intero diritto internazionale54.

Alla ricerca dell’identità: Victor Tau Anzoátegui e i nuovi orizzonti del diritto indiano

47Negli anni settanta investita dalle trasformazioni sociali ed economiche che attraversavano l’Europa, la storiografia giuridica cominciò ad interrogarsi sulla necessità di un profondo rinnovamento metodologico. Anche i giuristi spagnoli più sensibili presero parte a questo dibattito55. Nel 1977 dalle pagine di una pubblicazione del Max Planck di Francoforte, i fratelli Peset, e, due anni dopo, da quelle dei Quaderni fiorentini, Bartolomé Calvero, sottoposero ad una dura critica l’impostazione “istituzionale” di García Gallo e rivisitarono l’immagine della scuola di Hinojosa che egli aveva imposto. L’accento tornava a battere sulla dimensione storica del fenomeno giuridico, sulle sue connessioni con la realtà sociale e la struttura economica e si individuava proprio nell’esaltazione nazionalistica della diversità ispanica e nella dilatazione del momento legislativo le cause principali dei ritardi storiografici e dell’indifferenza verso un fenomeno europeo come quello del diritto comune e verso la storia costituzionale spagnola del secolo XIX56. E se García Gallo ancora nel 1979 insisteva nel rimanere fedele ad una storia di tipo istituzionalistico ed attribuiva la poca attenzione dedicata al diritto comune in Spagna alla centralità della componente germanica del diritto altomedievale spagnolo57, poco tempo dopo Francisco Tomás y Valiente, compì un altro passo importante nel processo di revisione della metodologia di García Gallo che egli stesso aveva iniziato cinque anni prima con un saggio il cui titolo parafrasava quello della famosa conferenza romana di García Gallo. In esso Tomás y Valiente affermò che non solo non era possibile fare storia del diritto così come il professore castigliano aveva pensato nel 1952, ma anche che tutta «la direzione verso cui García Gallo aveva orientato teoricamente la Storia del Diritto in Spagna, vista soprattutto dalla triplice prospettiva del Manuale, dei suoi propri fondamenti e della globale caratterizzazione dell’Anuario, non sembrava convincente»58.

48Nel 1986, poi l’anno in cui la Spagna entrava in Europa, Helmut Coing presentò al I Simposio Internacional del Instituto de Derecho Común una relazione significativamente intitolata España y Europa, un pasado jurídico común in cui riconosceva la fine della diversità ispanica e la partecipazione anche della cultura giuridica spagnola alla storia europea. Il direttore del più prestigioso istituto europeo, il Max Planck Institut für europäische Rechtsgeschichte di Francoforte, gli permetteva di accedere alla memoria condivisa dell’antico diritto comune, e attestava il ruolo svolto dai teologi spagnoli del XVI secolo nel percorso verso l’edificazione del sistema giuridico e la trasformazione del diritto in scienza giuridica59. Certo, la storia raccontata dal direttore del Max Planck non era altro che «the old translatio studii with a few superficial patches to cover its nakedness, a few sops to the peddlers of unstable legal currency»60. Un’ennesima riprosizione in chiave germanocentrica del mito della storia del diritto europeo, che nasce in Italia, si sviluppa in Francia, si perfeziona in Olanda e si conclude con il trionfo della pandettistica in Germania. Ma Coing, per i suoi ospiti spagnoli, vi introdusse una significativa variante: certificò l’esistenza del diritto comune nel patrimonio giuridico spagnolo, legittimando il lavoro svolto negli ultimi anni dagli storici del diritto iberici, e ammise all’interno del racconto i campioni della seconda scolastica. Il diritto spagnolo era finalmente parte della storia giuridica dell’Europa continentale.

49Tre anni dopo, nel 1989, in un convegno organizzato dal Centro di studi per la storia del pensiero giuridico moderno, sotto la direzione di Paolo Grossi, la storiografia spagnola era pronta per calcare la «scena giuridica europea», e si sottose ad una sorta di psicoterapia di gruppo di fronte ai colleghi italiani61. Nella relazione introduttiva Tomás y Valiente portò a compimento il processo di rivisitazione metodologica delle posizioni concettuali di Gracía Gallo iniziato nel 1976, ed incrinò definitivamente la rappresentazione della scuola di Hinojosa che il maestro madrileno aveva diffuso, disvelando le manipolazioni ideologiche cui era stata sottoposta e arrivando sostanzialmente a mettere in discussione l’esistenza stessa di una scuola di Hinojsa e successivamente di García Gallo62. Non solo. Non era sfuggita agli organizzatori dell’incontro l’importanza di complicare le immagini di Hispania indagando le sue proiezioni giuridiche nei territori d’oltre Oceano. Si era affidato così alla sapienza di Victor Tau Anzoátegui il compito di illustrare l’allora esoticissimo derecho indiano ed i suoi rapporti con il diritto castigliano e il diritto comune. E Tau Anzoátegui, attraverso il filtro della relazione murciana di Coing del 1986, prima citazione, sostenne che fosse impossibile comprendere e descrivere il diritto comune in Spagna «senza tenere in debito conto la sua espansione nello spazio atalantico»63. Dopo il diritto e i giuristi castigliani anche il derecho indiano e i suoi protagonisti chiedevano di far parte della storia giuridica europea. Vi era un «unico sistema giuridico di radice europea continentale», «un’unica unità di studio» in cui si integravano diritto comune, diritto castigliano, diritto indiano». García Gallo continuava ad ispirare le coordinate metodologiche e l’idea di un sistema con funzione centripeta ritornava anche nelle pagine di Tau Anzoátegui, ma l’oggetto di quelle coordinate e di quel sistema appariva dalla relazione del maestro argentino ben più complesso di quanto non lo fosse nei lavori del storico del diritto madrileno, o di chi negli stessi anni immaginava essersi riprodotta nelle Indie la medesima relazione sistemica europea tra diritto romano, diritto canonico, diritti particolari che Calasso aveva pensato di scorgere nell’Italia medievale, e utilizzava i valori cristiani del diritto comune per leggere l’impegno della Corona spagnola in favore degli indigeni e giustificarne l’asservimento.

50Victor Tau continuava a dichiarasi debitore del «magistero» di Gallo, ma allo stesso tempo ricordava con orgoglio l’appartenenza alla scuola di Ricardo Levene e nel rispetto della tradizione storiografica che il maestro argentino e Rafael Altamira avevano inagurato oltre Oceano e che – non dimentichiamolo –García Gallo aveva sempre combattuto perché non sufficientemente giuridica, si prefiggeva l’obiettivo di restituire la complessità del diritto indiano64. All’interno di una storia comune, il diritto indiano era un sapere differente, la cui identità non poteva essere facilmente imbrigliata attraverso il ricorso all’idea sistema legislativo o giurisprudenziale. Il sistema del resto, scrisse qualche anno più tardi in una ricostruzione della metodologia di García Gallo, non era una realtà storica ma una proiezione della sua concezione nazionale e positivista. Tau Anzoátegui riconosceva i meriti del professore spagnolo, sottolineava anche le timide aperture degli Ottanta, ma nelle sue pagine non mancavano le prese distanza. Certo, nello stile dell’Autore, mai gridate, mai personali, al contrario, sussurrate, dissimulate da una ricerca costante verso soluzioni che permettessero di raggiungere un punto d’incontro o mantenere le convergenze. E tuttavia vi erano e mio avviso non sono di poco conto. In un importante lavoro sulle prospettive del derecho indiano egli riconosceva non solo che «persiste nella storiografia, in dosi molto alte, la forza modellatrice della cultura legalista», ma invitava gli storici a ricostruire il rapporto (spezzato?) con il tessuto sociale e a sostituire «la cultura legalista con una cultura giuridica»65. Solo una cultura giuridica avrebbe permesso infatti di «collocare la legge dentro l’ordinamento nel suo vero luogo, secondo la materia e le epoche, e avrebbe reso possibile una ‘lettura intelligente’ – che non è ingenua né maliziosa – dei testi legali, interrogandoli alla luce di una concezione amplia del fenomeno giuridico»66. La consapevolezza della complessità avrebbe reso possibile poi una rinnovata attenzione verso gli altri modi di produzione del diritto, la consuetudine, la dottrina, la giurisprudenza dei tribunali67. Un auspicio che egli stesso aveva contribuito a soddisfare con due importanti lavori apparsi nel 1992. Il primo La ley en Hispanoamérica, dedicato, appunto, alla diverse fonti del diritto indiano, e il secondo, dal titolo significativo Casuismo y sistema, rivolto, ad indagarne storicamente lo spirito68.

51Anche Tau Anzoátegui era alla ricerca dell’identità del suo oggetto di studio, ma la scoperta o la riscoperta del pluralismo normativo cui portava la sua indagine non era più un problema da superare, o il punto di partenza di un’indagine necessariamente rivolta ad individuare un’unità superiore. Il sistema non era scomparso dal suo orizzonte, incombeva pericolosamente con il suo rigore tedesco sul disordinato mondo indiano. Allo stesso modo la tensione idealistica che sosteneva la sua ricerca avrebbe potuto altrettanto pericolosamente rinnovare il sogno di un’unità spirtuale e giuridica e rendere possibile ancora una volta la vecchia storia di una conquista senza conquista e conquistati in cui sciogliere senza residui la radicale diversità indigena.

52Il sistema però non esauriva l’orizzonte teorico della rappresentazione di Tau Anzoátegui. Accanto e contro il sistema lo storico argentino introduceva un’altra categoria interpretativa, il casuismo, un concetto e «vocabolo anacronistico» che ancora una volta non aveva a che fare con i fatti, ma appunto con le interpretazioni. Il diritto indiano era un ordinamento casuista, un ordinamento pluralista che rifletteva il pluralismo dell’ordine politico indiano e che era in grado di resistere strenuamente alle aspirazioni razionalizzanti dello stesso sistema. Opponendo all’ «idea sistematica» la «creencia casuistica» Tau Anzoátegui riportava i testi nei loro contesti, riconduceva il diritto in società, permettendo anche a coloro che continuavano a nutrire una sana diffidenza verso ogni forma di “spiritismo”, di condividere le sue esplorazioni del sottosuolo «debajo de la legislación, la jurisprudencia o la actividad judicial»69. «El derecho indiano – scriveva nell’epilogo Tau Anzoátegui – aparece como un ordenamiento abierto a distintos modos de creación – normas legales, costumbres, jurisprudencia de los autores, práctica judicial, ejemplares, equidad, etc. – con ciertos principios rectores y leyes generales, pero con vastos espaciós para disposiciones particulares, privilegios, excepciones y dispensas. La materia, las personas, el tiempo y las circustancias eran atendidas preferentemente en la solución de los casos dentro una sociedad que lucía sus estamentos o “estados»70.

53Nell’anno del cinquencentenario della scoperta dell’America, dall’interno di una tradizione storiografica consolidata e a lettori dai gusti piuttosto conservatori il maestro argentino offriva una lettura profondamente innovativa del mondo indiano che, a me piace pensare così, avrebbe potuto suscitare non solo qualche perplessità in García Gallo ma anche nella sua numerosa scuola.

54Nel libro Victor Tau Anzoátegui non affrontava direttamente il problema indigeno. Tuttavia la costruzione dell’ordine giuridico indiano come un ordine casuistico aperto alle diversità e pronto ad adeguarsi alle esigenze della prassi costituiva il presupposto per una riflessione più consapevole sul ruolo delle posizioni dei nativi nella società ispanoamericana e allo stesso tempo sulle strategie di controllo impiegate dai giuristi per disattivare la radicale alterità indigena. Il pluralismo giuridico indiano infatti non anticipava sensibilità postmoderne né disponeva in un disegno ordinato e garantista diritti e soggetti diversi destinati ad essere sacrificati sull’altare del formalismo giuridico della modernità, ma attraverso strumenti diversi – la riconduzione degli indigeni all’interno di vecchi status, il loro inserimento nei meccanismi processuali spagnoli, l’imposizione del castigliano, l’urbanizzazione forzata e ovviamente la conversione al cattolicesimo – tutti oscillanti tra protezione e repressione, si prefiggeva l’obiettivo di superare un giorno quella diversità così tanto temuta e di cancellarne la memoria.

Aufsatz vom 15. April 2013
© 2013 fhi
ISSN: 1860-5605
Erstveröffentlichung
15. April 2013

  • Zitiervorschlag Luigi Nuzzo, Memoria, identità e uso pubblico della storia: l’invenzione del derecho indiano (15. April 2013), in forum historiae iuris, https://forhistiur.net2013-04-nuzzo