Zeitschrift Rezensionen

Rezensiert von: Diego Nunes

Daniele Negri , Michele Pifferi Daniele Negri , Michele Pifferi, Diritti individuali e processo penale nell’Italia repubblicana: Materiali dall’incontro di studio

(Biblioteca per la storia del pensiero giuridico moderno 93) fondata da Paolo Grossi e diretta da Bernardo Sordi, Giuffrè, Milano 2011

1Il volume curato da Daniele Negri e Michele Pifferi raccoglie gli atti del secondo seminario ferrarese in cui si mettono a confronto le prospettive dei giuristi “positivi” e degli storici del diritto1. Questa volta processualpenalisti e storici del diritto hanno discusso sul processo penale nell’Italia repubblicana dalla prospettiva dei diritti individuali. Si parte da “le ragioni di un dialogo” con le relazioni introduttive, in specie quella di Orlandi che è servita da guida alle discussioni successive. Seguono i numerosi “interventi” e una “tavola rotonda” che ha presentato alcune figure dell’esperienza. Alla fine si è aggiunta “la testimonianza di un protagonista”, con l’intervista a Mario Chiavario, uno dei membri della commissione responsabile della redazione del codice di procedura penale (c.p.p.) del 1988.

2Di questa opera colletiva di taglio interdisciplinare consideremo nel seguito alcuni profili, che ci sembrano di particolare interesse per la Storia del diritto. Come ha ricordato Costa, giurista e storico lavorano sullo stesso oggetto con obiettivi diversi: gli storici fanno “un lavoro ermeneutico e ‘ricostruttivo’”, mentre i giuristi hanno “un compito ‘costruttivo’ e teoretico” [p. 151].

3In questo senso, il contributo introduttivo di Cappellini è già una recensione dentro l’opera. Egli riconosce ormai l'esistenza di “un dialogo maturo”. Facendo memoria di Carnelutti riprende il filone storiografico di Mario Sbriccoli sulla penalistica civile.2

4In pratica tutte le relazioni riconoscono l’impronta di Sbriccoli come ispiratrice alle loro riflessioni. Se da un lato c’era consenso sul fatto che la storiografia sul processo penale fosse qualcosa di recente e con basi ancora da costruire, dall’altro si dimostra l’efficacia dell’approccio sbriccoliano. La sua storia del penale3, anche se incentrata più sulla questione del “diritto penale sostanziale” e della giustizia criminale che sulla procedura penale4, ha concesso agli storici del diritto ed ai processualpenalistici di trovare terreno fertile per mantenere un “maturo” (Cappellini) e “problematico” (Pifferi) ma stimolante dialogo.

5L’opera rivela questa tensione nelle figure dell’esperienza. Se la relazione introduttiva di Orlandi è stata capace di trovare consensi – meritevole di riuscire a costruire una cornice entro la quale storici e processualisti si sentivano a loro agio – gli interventi dimostrano momenti di apertura interdisciplinare (anche oltre la storia) e di chiusura dogmatica. Come ci ricorda Cazzetta nella relazione introduttiva del precedente seminario ferrarese fra i giuslavoristici e i giustorici5, la costruzione di una tradizione, in una certa misura, richiede lo sviluppo di una storiografia giuridica, sia in via di mera legittimazione, sia per una sua riflessione critica.

6In questo senso è stata felice la relazione di Orlandi. Passando in rassegna i diversi stili dottrinali coinvolti in una data situazione politico-sociale, il processualista ha messo in risalto questioni che richiedono l’apporto accurato degli studi storico-giuridici. Pifferi a sua volta ci ha indicato in modo efficace le fasi del dialogo fra i processualisti e gli storici. Forse manca ancora una storia della storiografia che sappia identificare questi riflessi. Se non era questo il compito dell’opera in recensione, sicuramente è un suo legato da cui non si può prescindere.

7La interessante e complessa periodizzazione proposta da Orlandi – un primo periodo dalla caduta del fascismo alle riforme degli anni cinquanta; un secondo dal progetto Carnelutti al nuovo codice; e un terzo sul c.p.p. del 1988 ai tempi nostri (periodo ulteriormente diviso in stagioni: il triennio sperimentale; l’epoca di “Mani pulite”; l’epoca del “giusto processo”; e l’epoca dell’ “ossessione securitaria” e dell’apertura allo spazio giuridico europeo) – basata su criteri rigorosi (situazione politico-sociale, stile dottrinale, impostazione riformista) spinge lo storico a riflettere sulla costruzione di una “storia del tempo presente”. Come espone Costa, “fare storia del presente (nonostante l’apparente ossimoro) rivela (al fondo) le medesime caratteristiche e le medesime difficoltà di qualsiasi altra impresa storiografica” [p.151].

8Secondo Cappellini questa necessità condivisa di periodizzazione indica il desiderio di nuove problematizzazioni. Pifferi avverte sull’uso discorsivo della storia e sulla sua forza. Nella fase del “dialogo ricercato” degli anni '70, mentre i giuristi positivi riconoscevano l’importanza della storia e volevano una storiografia che colpisse il processualista, gli storici cercavano nuovi metodi e si ponevano contro il tecnicismo6.

9Tuttavia, non si può avere l'illusione che questi sforzi di periodizzazione possano risolvere tutti i problemi allora esistenti, come ha dimostrato ad es. Garuti nel suo intervento sul problema della contumacia e della restituzione in termine. Questa, come altre situazioni, non può essere fatta rientrare nella cornice data da Orlandi, e ci ricorda che “l'inconscio inquisitorio”7 è un'ombra che non ha lasciato il processo penale italiano con il nuovo c.p.p. ma anzi ci rivela un'importante continuità, o meglio, un “tratto permanente”8. Certo è che non ci si può valere di una visione “evolutiva” (anche se la critica di Illuminati ad Orlandi in questo senso non sia del tutto efficace) nelle ricostruzioni, specialmente sulla lunga durata.

10I. Il primo problema storiografico che emerge in quest’analisi del processo penale nell’Italia repubblicana è la sopravvivenza del codice di procedura penale del 1930 all'interno del nuovo ordine costituzionale. Le transizioni di regimi politici portano l'ordine giuridico a una sovrapposizione di tradizioni, così da formare un palinsesto9. L'ordinamento giuridico come parte della cultura di una nazione possiede una sua memoria. E in questa transizione dall'autoritarismo alla democrazia il ruolo di una legge dittatoriale e dei giudici che hanno avuto un'attività di “giuristi di regime” sono cruciali su un “nuovo” ambiente politico-istituzionale10.

11La questione del mantenimento dei codici penale e di procedura penale è già stata messa a fuoco in proficui dibattiti11. Sul lavoro in analisi, è opportuno segnalare con Orlandi il ruolo della dottrina di segno tecnicista nel conservare i codici dopo il fascismo, come esemplificato dagli sforzi di Leone nell’evidenziare il carattere “scientifico” del c.p.p. una volta sottoposto ad una opera di “depoliticizzazione” [Colao, p. 200]. Fra sopportare il passato provando a contenere i danni e ritornare ad una tradizione liberale ormai lontana, si decise di non sostituire i codici penali perché “il passato non si cancella” [Miletti, p. 365]. Anche se ci fu questa dimostrazione di impegno scientifico del tecnicismo sul mantenimento delle codificazioni, su un piano più generale rimaneva il problema dell’autonomia scientifica della disciplina processualpenalistica, ancora considerata “scientifica mediocritas” e sotto “l'oppressione” del penale materiale e del processo civile.

12Secondo Garlati, il salvataggio del c.p. e del c.p.p. implicava anche quello dei giuristi, “autori di norme capaci di sopravvivere alle intemperie e alle contingenze del momento”; tale scelta voleva dimostrare questi giuristi come una “classe incontaminata” [p. 292].

13Se la Costituzione italiana è arrivata nel 1948 con una serie di garanzie processuali, la costituzionalizzazione dei diritti correlati al processo penale – il “diritto processuale penale come diritto costituzionale applicato” di Negri – è rimasta in un secondo piano a causa della sopravvivenza dello “stile Trattato di Manzini”, come ci segnala Chiodi [p. 238].

14L’arrivo del “primo codice dell’Italia repubblicana” ci fa domandare con Garlati se il c.p.p. è stato veramente la novità oppure una “novità nel segno della continuità”, soprattutto se pensiamo a “le diverse vite del codice Rocco”. Anche se per Kostoris il c.p.p. del 1988 non può essere visto se non come una rottura (codici diversi, culture giuridiche diverse), la modifica ha avuto come causa il tramonto di un’era.

15II. Il rapporto fra diritti individuali e processo penale corrisponde alla lettura di Sbriccoli che ritiene il penale come elemento della costituzione materiale della società. Il problema penale12 o la questione penale13, come ci avverte Lacchè, è una dimensione di lunga durata nella storia italiana.

16La forza dei precetti costituzionali non si è imposta così facilmente nel dibattito post-costituzionale. C’è stata una difficoltà evidente nel riconoscere i diritti assegnati dal testo del 1948. Nella relazione conclusiva, Palazzo ribalta la questione dei diritti individuali con il diritto penale sostanziale, in modo da mettere in luce lo “scandalo” del c.p. Rocco ancora vigente. Questa ristrettezza della riforma al solo codice di procedura è pure indicata da Chiavario. Il penale democratico è ancora squilibrato dal mantenimento di strumenti legislativi come il codice “assai più autoritario che tecnicamente perfetto” [Palazzo, p. 414]. Se la costituzione riconosce i diritti, il c.p. deve tutelarli e il c.p.p. garantirli; resta alla Corte Costituzionale il compito di applicarli in una logica di sistema.

17Già dall’impegno della Costituente contro la “degenerazione autoritaria” e per la “costituzionalizzazione dei diritti” (Costa), si è posto il problema dell’impronta inquisitoria del processo penale.

18La domanda che si pone riguarda la convivenza fra il vigente modello accusatorio del c.p.p. del 1988 e le politiche securitarie, svolte attraverso leggi extra codicem: “concettualmente incompatibili e tuttavia collegate funzionalmente fra di loro” [Costa, p. 155]. Il problema dell’emergenza come elemento nell’ordine penalistico è di lunga durata e va oltre la dialettica accusatorio/inquisitorio. Come è stato recentemente mostrato riguardo ai “paradigmi dell’eccezione”14 nella modernità giuridica, l’emergenza è funzionale al sistema legicentrico che prevede la possibilità di una eccezione alla regola, ma in una prospettiva escludente.

19III. Altra importante questione è quella dell’effettività delle garanzie processuali nel regime democratico. Il volume ci presenta tre esempi distinti in periodi storici diversi. Il primo riguarda gli anni ’50, periodo caratterizzato dal problema degli “interrogatori duri”; essi avrebbero aperto la possibilità di una “procedura invisibile” in cui la confessione per tortura era tollerabile (Rafaraci). Un secondo esempio negli anni ’70 e ’80, proprio durante i lavori preparatori del nuovo c.p.p., è costituito dall’emergenza terroristica e dalla presenza del regime giuridico dell’eccezione nell’ambito penale. Come rileva Orlandi, “è curioso osservare che, a una settimana dall’approvazione della legge-delega per la riforma del processo, il governo vara un decreto-legge contenente ‘Provvedimenti urgenti sulla giustizia penale’ per fronteggiare l’allarmante fenomeno dei sequestri di persona a scopo di estorsione” [p. 68]. Il terzo esempio negli anni ’90, riguarda la vicenda “mani pulite”, che può essere vista sotto l’angolazione della mitigazione delle garanzie (Illuminati). Neanche la nuova codificazione di carattere accusatorio è stata in grado di dare piena protezione agli accusati.

20Il problema dell’effettività viene presentato sotto un’ottica originale con De Chiara, che ha presentato il trial by media e i suoi contorni drammatici nella contemporaneità. L’accensione di una “Giustizia pop” dove l’impegno di cronaca (“approfondimento” o “intrattenimento”?) lascia la vittima – già il “dark side of the moon” del processo penale – incastrata pure sul “processo parallelo” dei media compromesso solo con l’audience durante le fasi “calde”. La ritirata dei fatti dal loro contesto non ha limiti neanche paura in diventare una “pornografia del dolore”. Bisognerebbe recuperare una strada virtuosa come quella della trasmissione “Processo per stupro”15 e trovare mezzi di (auto)contenzione dell’ “inconscio inquisitorio” dei media.

21IV. Il problema storiografico più considerato da parte dei processualpenalisti che hanno partecipato a questo dialogo è stato la dialettica fra modello inquisitorio e accusatorio. La formula del “garantismo inquisitorio” di Nobili16 fu recuperata per spiegare una delle “vite” del c.p.p. Rocco, quella fra la riforma del 1955 e la nascita del codice del 1988. Da una parte, Dezza ha proposto di analizzare questa formula come un fenomeno di lunga durata, risalendo al Codice Romagnosi del 1807; dall’altra, lo stesso Nobili propone il confronto tra il garantismo inquisitorio degli anni ’50-’60 e l’ “accusatorio non garantito” dei ’90: un “accusatorio sulle labbra e l’inquisitorio nel cuore”17.

22Secondo Dezza, se da un lato non esistono modelli puri, dall’altro accusatorio ed inquisitorio sono strumenti efficaci dal punto di vista storico e comparativo. Quello che dovrebbe essere respinto è il loro uso astratto, e non i modelli in sé. La dialettica fra i modelli è un elemento importante per il dialogo fra storici e processualisti, poiché fecondo e condiviso terreno di studio.

23La sopravvivenza dell’ “inconscio inquisitorio” nel nuovo c.p.p. diventa un importante punto del dibattito. Ancora con Dezza si possono osservare i limiti della nuova codificazione. Il sistema accusatorio “all’italiana” è in verità “l’illusione accusatoria”18. La preservazione di un’attitudine ancora inquisitoria in cui si osserva un’ “ultrattività” del sistema misto, ad es. nella supervalorizzazione dell’indagine preliminare, è il sintomo più evidente.

24Questo problema della sottomissione della procedura accusatoria a una prassi inquisitoria è rilevato da Marzaduri a proposito della custodia cautelare. Così intende anche Kostoris: si deve insistere sul ruolo della prassi nel processo; non si può vederla come qualcosa di impuro bensì come segno d’inadeguatezza della legge.

25Ancora sui modelli processuali, resta da sottolineare con Dezza la questione dei sistemi di prova. Il passaggio dalla vecchia regina probatorium (la confessione) alla nuova (le prove tecniche) potrebbe essere considerato un ritorno alla logica della prova legale. Sarà veramente un passo in avanti l'uso assolutizzante della tecnologia? Potrebbe essere una riposta l’equiparazione fra l’indagine giudiziaria e la scientifica (Pastore)19? Parlando del testimone fragile, Cesari ci riporta al problema del libero convincimento e al suo rapporto con queste nuove prove tecniche.

26V. Per finire, affrontiamo la principale questione metodologica dell’opera, ossia il dialogo fra la Storia del diritto e il Diritto positivo, qui manifesto fra storici e processualpenalisti. Con il suo approccio specifico lo storico è capace di fornire elementi invisibili agli strumenti abituali del giurista positivo20. Tuttavia, secondo Amodio, la storia del processo post-unitario è recente e ancora inorganica perché centrata sulle tematiche, non sui periodi. I processualisti desiderebbero una storiografia che riveli loro le matrici culturali e ideologiche, “l’architettura invisibile” della giustizia in modo di riuscire a vedere le continuità e gli “effetti devianti” di “riforme virtuose”.

27Un carattere “problematico” del dialogo è il diverso atteggiamento dei positivisti e degli storici di fronte al cambiamento paradigmatico verso un nuovo diritto giurisprudenziale, con la debolezza della legalità e la costellazione di corti (interne: cassazione versus costituzionale; esterne: europee ed internazionali)21. Ricordiamo che il primo codice dell’Italia repubblicana è nato appunto nell’ “età della decodificazione”22.

28Un confronto scomodo, perché quello che è ancora un “problema” per i processualisti è una stagione fertile per le indagini da parte degli storici. Per i processualisti, la crisi della codificazione e della legalità richiede come risposta una ristrutturazione del sistema (di costellazioni legislative) che riaffermi la forza della legalità. Il nodo si trova nell’attuale supremazia della giustizia sulla legge e nella preoccupazione relativa all’attuazione dei principi costituzionali e della giurisprudenza delle Corti Europee (Chiavario). Lo storico invece si trova in un momento fertile per ricostruzioni euristiche del novecento giuridico23 che potranno pensare a una diversa ristrutturazione del sistema. La determinazione degli spazi creativi della giurisprudenza verso i diritti fondamentali è e sarà un campo di indagine da percorrere in costante dialogo fra storici e positivisti.

Rezension vom 12. November 2013
© 2013 fhi
ISSN: 1860-5605
Erstveröffentlichung
12. November 2013

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