Zeitschrift Aufsätze

Eliana Augusti*

Un diritto possibile Storie, teorie e prassi di modernità tra comparazione e globalizzazione

«Siamo come viaggiatori che esplorano un territorio sconosciuto con l’aiuto di vecchie mappe, disegnate in tempi diversi e in risposta a bisogni differenti. Mentre il terreno sul quale stiamo procedendo, la società mondiale degli stati, è cambiato, le nostre mappe non lo sono»1

1. Una premessa

1Con 1493. Uncovering the New World Columbus created, lo scrittore americano Charles C. Mann riscosse un grande successo al di là dell’Atlantico. Era il 2011. Un lavoro apparentemente di gran pregio storico, in realtà, come nota Le Goff, «una fantasticheria»: Cristoforo Colombo, di ritorno nel marzo del 1493 da quello che non pensava fosse un nuovo continente, porta con sé «monili d’oro, pappagalli dai colori brillanti e ben dieci prigionieri indiani»2. Per Mann, con Colombo si stava avviando una nuova era biologica, quella dell’Homogenocene3, neologismo che richiamava il concetto di omogeneizzazione, inteso come processo per cui mescolando sostanze dissimili si otteneva un miscuglio uniforme4. Era l’approdo definitivo del germe della globalizzazione.

2Ora, se la globalizzazione sia o non sia stata merito (o colpa) di Colombo non ci è dato sapere. Ciò che sappiamo è, però, che di globalizzazione si è cominciato a parlare grosso modo a partire dagli anni Novanta del secolo scorso per riferire di una serie di questioni vantaggiate da caratteristiche tecnologico-comunicative e legate al crescente numero di interconnessioni tra diverse aree del pianeta5; la globalizzazione si è dunque manifestata come urgenza di integrazione economica, sociale e culturale, come necessità di regolazione, come nuovo ordine6.

3Negli anni, sono stati diversi i contributi che, da più prospettive disciplinari (comunque affini), hanno affrontato il tema della globalizzazione, ne hanno analizzato le cause, sperimentato i processi e verificato gli esiti. In modi e tempi diversi, la scienza politica, la storia moderna, il diritto comparato, il diritto pubblico, la storia del diritto, la storia del diritto internazionale e del diritto comparato, l’antropologia, la sociologia e la filosofia del diritto, hanno ripercorso e rivisto le proprie narrazioni in quell’ottica “globale” diventata intanto «the cliché of our times»7.

4Dal punto di vista della storia del diritto, la globalizzazione ha costretto gli studiosi più sensibili a ripensare paradigmi, nozioni e categorie concettuali fino a un attimo prima condivise e consolidate in dottrina, come “nazione/stato”, “sovranità”, “territorio”, “confini”, “popolo”, “straniero”, “etnocentrismo”, “civiltà”, “modernità”, “colonialismo”, “impero”, etc.8; e a misurarsi con nuove e suggestive prospettive e declinazioni della disciplina, non ultime proprio quelle di “storia globale”9, di “diritto globale”10, di “storia del diritto globale”11. Gli esiti di questi ragionamenti sono ancora tutti da definire. L’indirizzo, però, è stato dato e spetta ora al singolo studioso, fatte salve le prospettive per così dire “intermedie” della storia della scienza giuridica, delle codificazioni, dello stato, del diritto europeo, etc., valutare l’opportunità di aprirsi ad una dimensione globale o di continuare a coltivare microstorie locali. Ad oggi, comunque, volendo ipotizzare un itinerario discorsivo della globalizzazione in ambito storico-giuridico, si potrebbe partire dai legaltransplant, così comemagistralmente stigmatizzati da Alan Watson negli anni Settanta del secolo scorso: il trapianto di soggetti e modelli (nel nostro caso) giuridici può costituire infatti, a mio avviso, un’utile premessa narrativa del fenomeno globale. Come per la globalizzazione, però, anche per i legaltransplant, l’approccio di studio è stato sì multidisciplinare, ma condannato alla settorialità dei singoli discorsi: la storia del diritto in questo senso ha maturato negli anni un suo debito nei confronti, in particolare, del diritto e della storia del diritto comparato. Eccezion fatta per l’intuizione che portò nel 2005 Marie Theres Fögen a coinvolgere diversi profili disciplinari nell’articolazione dei due volumi di «Rechtsgeschichte» dedicati al tema dei transfer, nella convinzione che «Da Transfer aber fürwahr nicht nur im Recht stattfindet, sondern immer und überall»12, la sensazione ancora oggi è di una sostanziale miopia alle conclusioni avanzate da altre discipline: un’autoreferenzialità di fondo e un’insuperata chiusura tra materie affini che produce un sostanziale immobilismo.

5È necessario dunque, a mio avviso, ora più che mai, riprendere il discorso dell’interdisciplinarità e, nel rispetto delle reciproche tassonomie, provare a mettere in dialogo contributi appartenenti a momenti e luoghi diversi della riflessione, evidenziando gli spunti e le suggestioni più utili ad un approccio più aperto e ragionato, come un’ottica globale impone, allo studio dei trasferimenti.

2. I Legal Transplant tra storia e comparazione

6Lasciandosi alle spalle le contingenze della definizione del transplantcome di uno «spostamento di una norma o di un apparato giuridico da un paese a un altro»13, dall’osservazione interdisciplinare dell’esperienza dei trapiantiè emersa una fenomenologia ben più complessa, che si offre ad un’esplorazione in più direzioni: ci si può interrogare sul cosa si sposti, sul dove e per dove si sposti, sul chi imponga, determini, condizioni, favorisca lo spostamento, sul chi subisca, determini, accolga lo spostamento, su quali siano i fattori (interni ed esterni) che determinino o condizionino lo spostamento. Proprio per questo la teoria di Watson è stata negli anni discussa e verificata in vario modo14. Alcuni studiosi ne hanno declinato versioni più stringenti, altri versioni più soft15; altri, in chiave più o meno problematica, hanno focalizzato l’attenzione su un solo momento del processo;altri ancora hanno semplicemente negato la possibilità dei trapianti, esponendo senza mezzi termini le debolezze del modello watsoniano16. Una letteratura più “creativa”, invece, non solo ha sostenuto la bontà dell’intuizione del romanista scozzese, ma ha anche sviluppato negli anni variazioni fantasiose sulla nozione-principe alla base della sua teoria. Parlando di “transfer”, “import-export”, “traduzioni”, “prestiti”, “ricezioni”, “imitazioni”, “influenze”, “traslocazioni”, “ispirazioni”, etc., di modelli giuridici, la ricerca è stata tutta finalizzata all’individuazione (quando non anche all’invenzione) della metafora più utile a rappresentare il fenomeno del transito, sul presupposto che, continuamente sollecitato, il significato del legal transplant potesse finire con l’apparire stretto e rigido.

7Di fronte alla minaccia di un appiattimento della topografia dei trasferimenti, dunque, nel tentativo compulsivo di riedificarne le architetture concettuali, si è frammentato e inutilmente, a mio avviso, complicato l’impianto tassonomico, col risultato prevedibile di immobilizzare una riflessione produttiva sul tema. Promuovendo soluzioni di concreta spendibilità, gli studiosi più pragmatici hanno ignorato i girotondi delle etichette e volto invece la loro attenzione ora agli attori coinvolti nel processo di trasferimento, ora ai “contesti di ricezione” (distinti da quelli “di produzione”), ora alle circostanze ideali per la sua attivazione: hanno così evidenziato la presenza di “promotori”, di “modelli di resistenza” o “contro-egemonia”, dimostrato che la maggior parte dei trapianti giuridici fallisce17 e spiegato perché le istituzioni giuridiche, una volta raggiunto il “contesto di ricezione”, vedono la loro natura e il loro funzionamento modificati in maniera sostanziale18. Svincolata dal virtuosismo teorico, l’osservazione doveva e poteva condursi quindi anche sul piano della prassi, nella convinzione che fossero i casi singoli a rivelare elementi utilissimi all’elaborazione degli impianti teorici, anche e soprattutto nel caso dei legaltransplant. Che si trattasse di reception, di diffusiono di expansione interaction, l’esperienza dei trasferimenti è stata comunque ricondotta a tre direttrici fondanti: la prima, quella dell’imposizione di un modello attraverso la forza; la seconda, del cambio di rotta determinato dal desire di seguire prestigiousmodels; la terza, della riforma dettata da propositi di crescita economica19.

8Michele Graziadei è stato tra i primi a fare il punto della letteratura; nel 2006 ha pubblicato per il prestigioso Oxford Handbook of Comparative Law un contributo di fine analisi che certificava l’onnipresenza dei trapianti nella prospettiva dei comparatisti e, indirettamente, forniva elementi utili alla storiografia giuridica20. Conciliando gli studi comparativi con quelli globali sui trasferimenti, Graziadei parlava di una vera e propria promozione del «legal change on a global scale»21, e aggiungeva un elemento in più alla riflessione sui trapianti: l’attenzione si spostava dalle tassonomie agli attori. In poche, dense pagine, il comparatista giungeva alla conclusione per cui il fenomeno del trasferimento, in particolare di modelli, idee, ideologie, dottrine, regole e così via, era da ricondursi alle élite22.

9Esclusa l’imputabilità assoluta del fenomeno all’autorità sovrana, si poteva dunque intravedere un rapporto quasi “affettivo” degli attori che operavano (o rendevano possibile) un trasferimento e l’oggetto del trasferimentostesso. Le conoscenze di questi soggetti-attori non erano altro che il risultato di interazioni tra dimensione locale e non-locale del diritto o, meglio, tra la sua sfera nazionale e quella internazionale23. Lo studio dei transplantgiuridici e delle ricezioni mostrava come le reti di individui e sottogruppi avessero avuto un ruolo decisivo nella diffusione di idee, ideologie e modelli su scala globale24: l’attenzione andava rivolta ai “circuiti comunicativi”, bisognava guardare cioè a comunicazioni, lingue e linguaggi, traduzioni, prestiti (concettuali e strutturali), contatti e “flussi”, appunto, realizzati tra operatori giuridici di varia natura (giudici, giuristi, teorici del diritto, ma anche legislatori)25. Partire dalle élite significava comprendere, in qualche modo, la natura “soggettiva” del diritto; significava cioè, per dirla con Leon Petrażycki, vedere il diritto come «a psychic experience»26.

10Nonostante i toni velatamente “romantici” della lettura di Graziadei, se ancora oggi i transplant sono realizzati nella convinzione che «imitation reduces the costs of legal innovation, at least in the short term», e l’imitazione intesa in questi termini ha bisogno di essere ascritta a fonti individuate come di prestigio, è perché questi attori “globali” che si fanno promotori di trasferimenti sono alla continua ricerca di modelli e strategie di cambiamento giuridico fondati, appunto, sul principio della mobilità del diritto27.

11«Plus ça change, plus c’est la même chose»28: l’espressione, riconducibile al genio satirico di Jean-Baptiste Alphonse Karr (pieno Ottocento), rende al meglio nel paradosso un’altra dimensione dei transplant, quella della “convergenza”, così come evidenziata da Ugo Mattei. Spostando l’attenzione, infatti, dagli attori ai contesti e alle circostanze, non ci si può esimere dal notare come le innovazioni introdotte a mezzo dei legaltransplant finiscano, nel tempo, col mostrare patternssimili di continuità e cambiamento tra gli ordinamenti. Come notava lo stesso Graziadei, spesso l’appropriazione di foreignelements si maschera «by dressing them in familiar clothes»; l’invocazione di vecchi e antichi precedenti o apparentemente simili pratiche giuridiche diventa poi un modo strategico per rendere familiare e consuetudinariociò che invece è realmente «alien and novel»29. Ecco come questa convergenza che si finisce col riscontrare a livello globale conferma la mutazione delle esperienze giuridiche e la relatività spazio-temporale delle classificazioni30, connota il trapianto come dato storico universale, incessante e multiforme31 e delega alla storia, attraverso una fine operazione di «archeologia giuridica», un ruolo fondamentale di verifica delle stratificazioni e di “smascheramento”32.

12Andando oltre la deduzione della convergenza, superato il sospetto di un appiattimento dei particolarismi e il rischio per nulla latente dell’omologazione33, Mattei come Graziadei riconosce comunque il merito degli attori nelle operazioni di transplant,e ne ricostruisce il circuito intellettuale, tutto interno e per lo più invisibile. Accanto a questi soggetti però, per non dimenticare che la natura “identitaria” del materiale maneggiato impone una certa delicatezza nell’approccio e impegna, come unico rimedio alla violenza del trasferimento, alla partecipazione, vale a dire alla consapevole accettazione e rimodulazione del modelli proposti da parte delle comunità importatrici, si abilita la figura del mediatore culturale34. Ne deriva un’immagine del trasferimento come complesso processo iterativo, consapevole, caratterizzato da una pluralità di soggetti e da una moltiplicazione di esiti che non può prescindere, tra l’altro, al di là di sterili analisi quantitative, dalle politiche di apprendimento35. Un fenomeno culturale, dunque, che porta inevitabilmente la riflessione sui transplantal ruolo dei contesti e, quindi, del sociale.

13Nella voce curata nel 2007 per l’Enciclopedia del diritto, sempre Mattei, riferendosi ai transplantparla, meglio, di “circolazione” di modelli giuridici, ne riconosce l’incessante dinamicità e ne rivendica il primato per gli studi comparatistici. Per quanto i ragionamenti di Watson abbiano donato “dignità teorica” al fenomeno, per Mattei «osservazioni etnografiche e storiografiche [di questo tipo] già da tempo ingombra[no] il tavolo di lavoro del comparatista»36.

14Fuori dalla polemica, si pensi, in questo senso, al maturare di una sensibilità comparativa nella Germania di Karl Joseph A. Mittermaier37 che, insieme a Karl Eduard Zachariae si fece promotore nel 1829 della KritischeZeitschriftfürRechtswissenschaft und GesetzgebungdesAuslandes, «an almost complete panorama of the state of legislation and legal science in foreign countries during a thirty year development»38; nella Francia di Jacques Gaspard Foelix, fondatore nel 1834 della Revueétrangère de Legislation «a medium between French and foreign jurists […] to give suggestions in regard to improvement of French law»39; nell’Inghilterra di William Burge, autore nel 1907 dei cinque volumi dei Commentaries on Colonial and ForeignLaws, «the main work on comparative law, both on the Continent and in the United States»40; nella nostra storia italiana, con Emerico Amari che nel 1857 pubblicava per i Saggi di Filosofia Civile dell’Accademia di Filosofia Italica una Critica di una scienza delle legislazioni comparate con l’intento di «colmare le lacune assai considerevoli […] nel sistema e nella storia d’una delle più nobili scienze legislative, cioè la scienza delle legislazioni comparate»41, certificandone così un’esperienza ancora più antica; o all’uso “creativo” che del diritto comparato fecero per primi negli Stati Uniti James Kent and Joseph Story42. Se infatti la prospettiva sul diritto viene, com’è stato fatto, aperta ad una dimensione spaziale e temporale sufficientemente ampia come quella della comparazione, tra Otto e Novecento, senza voler andare troppo indietro, si riscontrano continui trasferimenti di soluzioni, stilemi, regole, idee e modelli “inventati” in un certo luogo geografico, imitati altrove e finiti oggetto dell’osservazione degli studiosi più sensibili43. Questa apertura, tradotta nei concetti dinamici di “circolazione” e “convergenza”, neutralizza l’eccezionalità dei processi di transplant, emette seriamente in discussione il legame fra diritto e contesto sociale44: pensiamo a Friedrich Carl von Savigny e all’insegnamento della Scuola Storica tedesca, al colpo decisivo inferto al naturalismo giuridico dominante in Europa tra Sette e Ottocento e alla riduzione del diritto a fenomeno locale, frutto del Volksgeist di un certo contesto45; pensiamo al positivismo normativo della teoria giuridica del Novecento che ha dominato e domina in parte ancora oggi l’immaginario del giurista. «Il diritto prodotto da un popolo si riflette nella produzione giuridica positiva dello Stato-nazione, l’organizzazione che ogni popolo libero e sovrano si dà al fine di esercitare la propria sovranità»: questo (e solo questo) diritto è la risposta istituzionale ad ogni problema di un determinato popolo, e pertanto non può che differenziarsi in funzione dei confini geografici della statualità46. Un sociologo come Wolfgang Friedmann, rincarando la dose, sottolineava come il diritto dovesse riflettere necessariamente ed esclusivamente i bisogni sentiti da ciascuna società47.

15Le osservazioni sui transplant, poichélegate al reale, hanno mostrato come popolazioni diverse possano invece dotarsi di sistemi giuridici tutto sommato simili, “svincolando” di fatto il diritto dal contesto sociale, rendendolo, utilizzando un’espressione dell’antropologa Falk Moore, un “campo sociale semi-autonomo”48. Si è ammessa così la possibilità di “copiare” qualsiasi dispositivo giuridico in vista del risparmio di tempo e di expertise che sarebbe necessaria per mettere in piedi un prodotto originale49. Con un pizzico di ironia, Graziadei svelava che i «transfers of specific elements are so numerous that one is tempted to conclude that nobody really likes to re-invent the wheel»50. Sulla stessa linea, Mattei vedeva nell’oggetto del trapianto una «soluzione bell’e pronta, esteticamente seducente, ideologicamente promossa e strutturalmente agevole da applicare al diritto vigente –, soluzione che, poi, in quanto tale, – abbassa[va] drammaticamente i costi (almeno quelli apparenti) di ogni riforma del diritto»51. Michele Carducci sospettava invece di “pacchetti pronti all’uso”, come quelli della Best Practiceo delle GoodLessons, utili a «risolvere problemi pratici senza tanti perché, ossia indipendentemente dai contesti e dalle loro complessità storiche, culturali e materiali»52. Introducendo nella propria riflessione il fattore tempo c’era invece chi, come Giuseppe De Vergottini, riportava le diverse soluzioni giuridiche, anche importate, a semplici «tipi storici di esperienza e di giudizio», coerenti col processo di graduale maturazione verso il migliore ordinamento possibile53.

16Comunque si siano letti e si leggano i processi di transplant, a causa del mutamento della riconoscibilità territoriale dei contesti di produzione54, in quell’«euforia storico-globale per il movimento, la mobilità e la circolazione»55 per cui “tradizione” è diventata sinonimo di isolamento e “modernità” di connessione, ciò che si deve necessariamente promuovere è un ragionamento globale di “profondità”56 che dia stabilità al discorso e indaghi la reale penetrazione del trasferimento negli strati più compatti del sociale57. Occorre per questo tener conto dei contributi delle scienze sociali, senza pregiudizi; occorre riabilitare gli studi di geopolitica, comparazione e storia globale; e ancora, promuovere un atteggiamento partecipato e decostruttivo, comunque esterno al diritto, che osservi le esperienze giuridiche “trasversalmente”, superando le mitologie giuspositiviste e impegnando gli attori in una riflessione transdisciplinare concreta, per nulla sviata dall’alibi della naturale e sempre più stretta connessione del mondo, della globalizzazione come processo incontrollabile che si svolge dietro le loro spalle58. È solo in questa prospettiva, infatti, che il fenomeno può emergere in tutta la sua straordinaria complessità.

3. Quale/i modernità? La crisi del modello occidentale

17Il modello in sé, come strumento comparativo oggetto del legaltransplant, è stato nel tempo caricato di un’intrinseca assolutezza che ne ha inevitabilmente attenuato, quando non annullato, l’efficacia: si è reso per questo un «arnese inadatto sia per lo storico che per il comparatista» per la sua scarsa attenzione al passato, al presente e al futuro. Paolo Grossi, a cui si deve questa lettura, ha parlato della storia giuridica come di una «misteriosa sequela di tante maturità di tempi», di «momenti dialettici da porre in contatto e collegamento con il patrimonio di cui siamo portatori», relativizzandolo: parlare dunque di un “forziere di modelli” dal quale attingere e da trapiantare nel tempo è un errore, oltre che un atto di «suprema presunzione»59. «Il passato non serba archetipi trapiantabili, giacché nella storia dei corpi sociali i rigetti sono assai più violenti che nei corpi fisici»60.

18Quella che i comparatisti vedono come una soluzione di economicità, per Grossi diventa dunque una prova di «sprovvedutezza culturale, ingenuità [e] pigrizia del giurista»61. Senza negare in via di principio la soluzione dei trapianti spaziali, al di là dei giudizi, Grossi riabilita piuttosto il dialogo del giurista con lo storico del diritto, sua «coscienza critica», «relativizzat[rice] e demitizzat[rice]». Lo storico, da attore fra gli attori del trasferimento, è l’unico in grado di mettere in guardia il giurista circa la buona riuscita di un processo di legaltransplant, evitandogli di operare scelte avventate. Davanti alla mutevolezza e alla complessità dei fatti, storia e immaginazione procedono a braccetto incontro al diritto, nella verifica delle criticità e nella creazione e definizione delle soluzioni, assicurandone credibilità, affidabilità, vitalità, stabilità e, in una, certezza.

19Se, dunque, il diritto è savignianamente dinamico, e il modello di per sé ne rappresenta una cristallizzazione spazio-temporale; se, ancora, il giurista e lo storico del diritto dividono e condividono responsabilità e contesti di produzione; c’è che la logica del modello ha avuto ed ha una sua spendibilità; c’è che questa logica è tutta funzionale alla descrizione di un certo spazio del diritto, quello etnograficamente localizzato in Europa; c’è che questo modello è prevalentemente «quello degli ordinamenti giuridici di civil law che hanno (avuto) nella codificazione degli inizi dell’Ottocento la loro origine, e nella dottrina della divisione dei poteri uno dei loro principali tratti distintivi»62; c’è che questo modello, prescindendo da qualsiasi altra considerazione sui limiti della sua portata, si è rivelato inadeguato a cogliere e a render conto delle profonde innovazioni giuridiche legate all’affermazione dei paesi di destinazione, oltre che all’espandersi di uno “spazio giuridico globale”63; c’è che non si può comunque negare che il modello sia (stato) un “arnese” che, per quanto metodologicamente inadatto, si è prestato (e forse tutt’ora si presta) a pratiche d’uso (e d’abuso) “occidentali”, prima fra tutte quella coloniale. Anzi. Forse la distorsione coloniale deriva proprio dall’aver adottato la logica del modello64.

20Un modello – dice Grossi – va imitato e tradotto, e la realtà storica, in qualche modo, vi si deve conformare65, attivamente o passivamente. Partirei da questo assunto per discutere alcuni nodi problematici sulla spendibilità del modello che, in questo senso, connotano l’ambivalenza del fenomeno dei trasferimenti.

21Sospendendo il giudizio di Grossi sulla pigrizia del giurista e l’opportunità di realizzare o meno un transito di modelli, laddove ci si trovi davanti a sistemi giuridici simili, per i comparatisti l’attivazione del processo di trasferimento è possibile, per certi versi opportuna, e comunque facilitata dalle somiglianze culturali66. Quando invece queste somiglianze mancano il trasferimento non è impossibile, ma certo bisogna tener conto del fatto che i termini di un linguaggio possono non avere lo stesso significato in un altro, e condizionare pertanto negativamente l’efficacia dell’innesto67. In particolare, come ha efficacemente sintetizzato Tecla Mazzarese, sul fronte della traduzione/interpretazione del modello si tende a individuare tre ordini di problemi. Un primo, relativo ai termini (giuridici) di una lingua naturale che non hanno un corrispettivo (giuridico) in altre lingue naturali; si tratta, cioè, dell’assenza, nel linguaggio di destinazione, di una nozione (giuridica) corrispondente a quella da tradurre nel linguaggio di partenza. Un secondo, relativo ai termini (giuridici) di una lingua naturale che hanno sì un corrispettivo in altre lingue naturali, ma spesso non ne condividono le connotazioni. E un terzo, quello relativo ai termini (giuridici) di una lingua naturale che hanno un corrispettivo (giuridico) omologo in altre lingue naturali ma un significato non equivalente68. In un sistema di “competizione normativa”, il prestigio o, meglio, lo «spettacolo dell’efficienza»69 di un modello motiva affinché, nella condivisione di un logos di valori riconosciuti, si superino questi ostacoli di linguaggio. C’è da considerare però come ci si possa anche perdere nel processo di traduzione70.

22Ugualmente, al di là dei limiti del linguaggio, il contesto potrebbe qualificarsi semplicemente come «intransigente» poiché possiede una struttura «così fittamente, così organicamente integrata e omogenea, da non sopportare (o mal sopportare) la sostituzione di un suo componente con un componente esogeno»71. Riconoscendo pure l’uso di traduzioni dichiaratamente “grossolane”, sufficienti a consentire appena la comprensione dei modelli, si ribalta il processo e si completa il quadro, confinando in tutte quelle traduzioni coloniali approssimative e imprecise, anche e soprattutto perché funzionali «ai metodi sbrigativi del dominio coloniale»72, la declinazione più “prepotente” dei transplant.

23Soffermandosi sulla distorsione coloniale, la “violenza imperialista” ha superato questi problemi e, nell’intenzione ferma di riuscire, ha forzato il dispositivo dei trasferimenti per controllare spazi culturalmente diversi e altrimenti fuori dal discorso giuridico. Ho accennato al fenomeno che Dipesh Chakrabarty qualifica delle traduzioni “grossolane”. Un modello – dicevamo – va imitato e tradotto, e la realtà storica vi si deve conformare. Le implicazioni etico-politiche di una prospettiva di questo tipo sono facilmente deducibili: lo sbarramento di ogni alternativa, la ricezione obbligata, l’imposizione, la manipolazione delle élite, l’indifferenza alla traducibilità e la negazione della desiderabilità; o, semplicemente, l’impiego dello stesso lemma «modello» contribuiscono tutti a configurare un rapporto di gerarchica sotto-ordinazione dei paesi di destinazione rispetto a quelli di partenza. Esclusi infatti i casi di equi-ordinazione di cui dicevo prima, il trasferimento di modelli qualifica quasi sempre un’innegabile asimmetria dei contesti dialoganti.

24Da un punto di vista teorico, un inquadramento di questo aspetto del fenomeno e delle implicazioni “velatamente” colonialiste che dall’argomentazione dell’asimmetria derivano, potrebbe cercarsi nella distinzione che nel secolo scorso Alfred Weber faceva tra Kulture Zivilisation. L’economista e sociologo tedesco vincolava la prima al dato permanente di singole formazioni storico-geografiche, e vedeva la seconda realizzarsi progressivamente nella circolazione di rappresentazioni ideali e di strumenti tecnici. In quest’ottica, il progresso universale della ragione elevava l’umanità dalla barbarie verso la civiltà, in contrapposizione all’individualità della cultura,intesa come manifestazione di un particolare, citando ancora Savigny, “spirito del popolo”73, come impermeabilità dei contesti a modelli forestieri, come dimensione monolitica (quando c’era) dello Stato. Il rimando al concetto di Zivilisation avrebbe potuto portare ad una lettura per così dire “progressista” e, dunque, “evoluzionista” del fenomeno dei trasferimenti prima e della circolazione dei modelli poi, e legittimare il progetto coloniale: se il transfer produce civiltà, significa che, più in generale, la mutazione giuridica ha una matrice tale per cui il diritto è naturalmente destinato a svilupparsi in modo unilineare, «secondo uno schema nel quale il progresso rappresenta un valore universale, e la tradizione un indizio di arretratezza»74. E, ancora, che esiste un’idea di progresso, un modello acquisito che è espressione di modernità, una linea evolutiva predesignata che è, evidentemente, quella del diritto occidentale.

25L’intuizione della Zivilisationcome direttrice dei trasferimenti e, preliminarmente, dei rapporti tra soggetti ammessi al dialogo internazionale, era già stata cosa dell’Ottocento. In particolare, come notava Yasuaki Onuma, parlare di diritto internazionale nel diciannovesimo secolo significava porre la questione proprio nei termini di «diritto delle o tra nazioni civili», a voler sottolineare «the deeply rooted sense of supremacy» dell’Europa; gli altri popoli avrebbero potuto prendervi parte solo pensando «through the mechanisms of Western intellectual influence»75. Si parlò, infatti, di diritto «understood among civilized nations»76, di «rules which determine the conduct of the general body of civilized states in their mutual dealings»77; di «a system formed of those principles and rules of action which are acknowledged by civilized states as controlling in their mutual relations»78. Il diritto internazionale era un diritto in transizione: in un processo di graduale identificazione, abbandonava la dimensione della cristianità e, superando i limiti geografici dell’europeità, proseguiva verso la civiltà79. Così si era espresso anche Enrico Catellani: i tre paradigmi dell’europeità, della cristianità e della civiltà corrispondevano ad altrettante fasi fondanti la storia del diritto internazionale. All’idea etnografica che aveva ispirato le società dell’antichità, e all’idea religiosa che era stata alla base di quelle del medioevo, «s’est substituée l’idée de civilisation comme étant théoriquement plus universelle que la première et pratiquement plus susceptible de généralisation que la seconde»80.

26In realtà, come aveva notato Martti Koskenniemi, c’era un vizio di impostazione nel ragionamento. Essendo «the histories of jusgentium, natural law, and the law of nations, Völkerrecht and Droit public de l’Europe […] situated in Europe» non poteva che essere che essi adottassero «[the] European vocabulary of “progress” and “modernity”» e finissero col ricondurre alla propria tradizione lo standard di civiltà. D’altronde, «European stories, myths and metaphors continue to set the conditions for understanding international law’s past as it does for outlining its future»81. La prospettiva, dunque, era dichiaratamente eurocentrica e consolidata in questa direzione da buona parte della letteratura giuridica, filosofica e politica, e dalle sue traduzioni. Ne derivava che «first, European concepts came to be perceived as universally valid, and second Europe established its expansion through the spread of control and culture, as it affirmed its mission to «civilize» the «uncivilized nations»82. Pasquale Stanislao Mancini e Carlos Calvo furono tra i primi nell’Ottocento a individuare nella scienza giuridica internazionale e nelle potenze, europee, «qui marchent à la tête de la civilisation»83, il compito di «condur[re] gradatamente alla pienezza della vita di un popolo libero, ad un completo esercizio dei poteri politici» i popoli oppressi da quella barbarie che impediva loro di costituirsi in organizzazioni territoriali qualificabili secondo i canoni occidentali come Stati84. Pietro Costa, avrebbe parlato di un «fardello della civilizzazione», sentito dai popoli civili come missione verso i popoli non-civili85.

27L’immagine del diritto “della civiltà” aveva il suo peso e andava a produrre una “superiorità posizionale” del modello occidentale alla quale corrispondeva l’inferiorità degli altri86. Poiché di modelli egemoni s’è parlato solo in Occidente, il passaggio successivo era quello di riconoscere un evidente tasso di “orientalismo” della cultura giuridica euro-americana87. Non a caso, lo stesso Edward Said sottolineava come «l’orientalismo può essere studiato e discusso come l’insieme delle istituzioni create dall’Occidente al fine di gestire le proprie relazioni con l’Oriente, gestione basata oltre che sui rapporti di forza economici, politici e militari, anche su fattori culturali»88.

28Partendo dall’assunto, dunque, per cui esportare o importare modelli significava esportare o importare modernità (e, dunque, progresso e civilizzazione)89, nel diciannovesimo secolo la globalizzazione, allora discussa in termini di “universalità”, “politica mondiale” e “civiltà”, aveva presupposto la “diffusione” di dispositivi giuridici euro-americani consolidati: la connessione del mondo era percepita come una modernizzazione complessiva, un’estensione universale di quei dispositivi, un’omogeneizzazione implacabile ma lenta, da realizzare. Pasquale Fiore avrebbe parlato di un percorso graduale verso una «comunanza di diritto», una perfetta uguaglianza giuridica anche tra quegli Stati presso i quali quelle stesse idee di diritto, considerate fondamentali ed essenziali dal «comune consenso», non si erano sviluppate90. L’interesse commerciale avrebbe prevalso sul pregiudizio di (religione e di) civiltà. Occorreva pazientare, raccomandava Fiore, confidando nella scienza e nella civiltà: quella «comunanza di sentimenti giuridici» aveva avuto il suo sviluppo e la sua storia, ma la sua «evoluzione», notava l’internazionalista, «non era certo compiuta»91. Al tempo stesso, non era possibile pensare quel percorso verso la modernità, che opportunamente Charkrabarty qualificava come “politica” per distinguerla dalle altre, senza il lessico della tradizione intellettuale (e perfino teologica) europea92. Per dirla sempre con Charkrabarty, ancora oggi concetti come cittadinanza, Stato, società civile, sfera pubblica, diritti umani, individuo, democrazia, sovranità popolare, etc., portano tutti il peso del pensiero e della storia dell’Europa, «sottintendono una inevitabile – e in un certo senso indispensabile – visione universale e secolare di ciò che è umano», sono forme di un’«eredità che oggi si è fatta globale»93.

29Parte integrante di questa eredità intellettuale, globale, era la prospettiva storicista, vale a dire quella per cui qualcosa, per essere compresa, doveva essere vista nella sua unità e nel suo sviluppo storico94: storicista era la struttura del tempo storico globale del tipo “prima in Europa e poi nel resto del mondo”. Lo storicismo intendeva il tempo storico come la misura della presunta distanza culturale che separava l’Occidente dal non-Occidente, la civiltà dalla barbarie. Se in Europa questo atteggiamento rendeva possibile la compilazione di storie del tutto internaliste, storie cioè in cui il Vecchio Continente veniva descritto come il luogo in cui tutto era comparso per la prima volta, nelle colonie esso legittimava l’idea stessa della civilizzazione: meglio, quell’allocazione temporale, quel “resto del mondo” erano le colonie. Johannes Fabian ha chiamato questa strategia «negazione della contemporaneità (coevalness95.Grazie alla negazione e ad un semplice scarto temporale, territori e popolazioni coloniali furono dislocati in un’altra temporalità96; furono parimenti «esp[ulsi] dai territori della storiografia occidentale, […] semplicisticamente liquidati come «stagnanti» o «senza storia». Il “resto del mondo” era il luogo del “non ancora” (notyet) ingiunto da qualcuno a qualcun altro, del “non essere ancora” abbastanza civilizzato per autogovernarsi. Prima della sfida per l’autonomia sarebbe trascorso un intervallo storico di sviluppo e civilizzazione (o, per essere precisi, di dominio ed educazione, coloniali) necessario97. John Stuart Mill confinava le nazioni “rozze” in un’immaginaria sala d’aspetto della storia, «il colonizzatore raccomandava a[i] colonizzat[i] di aspettare il momento giusto»: avanziamo tutti verso la medesima destinazione, sosteneva, ma alcuni popoli arriveranno prima degli altri98. Per Luigi Nuzzo, la modernità giuridica «resuscitava la premodernità e, sul presupposto di una differenziazione temporale tra centro e periferia, rappresentava la colonia come differenza. Uno scarto temporale o un luogo marginale che poteva essere investito degli effetti benefici della temporalità moderna e divenire oggetto dei suoi miti, ma la cui storia doveva ancora iniziare o iniziava in quel preciso momento con la colonizzazione europea»99. La colonia era uno «spazio in ritardo», uno spazio sospeso, uno spazio molteplice che legittimava valutazioni e legislazioni differenti, anche e soprattutto d’un altro tempo, a seconda della sua diversa natura100. Geograficamente differente, la sua alterità spaziale segnava in modo indelebile la popolazione che la abitava, producendone l’alterità culturale.

30Questo discorso si moltiplicava, andando a trovare una declinazione specifica anche per quei contesti che, seppure non (o non ancora) coloniali, non potevano vantare il tempo dell’Occidente, ma neanche guadagnare la “sala d’aspetto” della storia. Lo scarto temporale rispetto all’Europa c’era comunque, ma era inferiore. Questo perché queste realtà andavano a collocarsi in un “punto medio” tra la civiltà e la barbarie: si parlò di mezze definizioni, di semi-civiltà. Penso, per esempio, all’Impero ottomano, o al Giappone101. Ne derivò un impianto di trasferimenti di modelli e categorie tradotti e traditi, come, fra tutti, quello della semi-sovranità. Di questa, la forma di trasferimento più interessante fu, nell’Ottocento, quella della suzeraineté, una categoria ibrida di sovranità mutuata (e qui era il premoderno) dal diritto feudale francese e tradotta in Oriente102.La suzeraineté era una di quelle mostruosità giuridiche che attraversavano il tempo e lo spazio, e diluivano l’oggetto del trasferimento, trasfigurandolo. Ciò che restava era solo la memoria di qualcosa di simile, ma che, ora, diveniva sostanzialmente diverso. Tutto era messo in moto da strategie essenzialmente diplomatiche, da ragioni (occidentali) della bilancia dei poteri e dell’equilibrio geopolitico che si traducevano in interventi miranti a creare solo le premesse legittimanti il dialogo tra culture altrimenti difficili da incontrare. Quel semi-qualcosa segnava la direzione del cambiamento, riconosceva e negava allo stesso tempo, includeva ed escludeva, senza nascondere pregiudizi e diffidenza.

31Aggirando i limiti del trasferimento, la traducibilità/traduzione dei modelli e, dunque, ancora una volta, il rapporto tra diritto e contesto culturale, s’arrivava spesso a connotare il capovolgimento per cui «law makes communities and societies»103, individuando il ruolo creativo del contesto d’origine del modello. Se, dunque, per Grossi un modello va imitato e tradotto e la realtà storica vi si deve conformare, la distorsione coloniale permetteva di dire che più che conformarvisi, la realtà storica si lasciasse re-inventare dal modello. Ho detto della suzerainetè,ma pensiamo ad un concetto più volatile come quello di “nazione”, al suo carattere modulare così come teorizzato da Benedict Anderson, alla creazione degli stati nazionali all’indomani della crisi degli imperi. Una volta creata (in Europa, nel diciannovesimo secolo), la forma del nazionalismo era trasferibile, disponibile a livello globale104. Per i postcolonialstudies quello dei nazionalismi nel mondo colonizzato è un esempio concreto di quando le condizioni imperiali attivano un trasferimento105. Per Partha Chatterjee, il nazionalismo nel mondo coloniale doveva necessariamente rimanere un fenomeno sviluppato dall’Europa, un “discorso deviato”: i movimenti nazionali si opponevano sì ai domini stranieri, ma restavano vincolati ai parametri del discorso, dominante, imperiale106. Fatto salvo (ove ci fosse) il livello per così dire “spirituale” di questi nazionalismi, il loro ambito «vero ed essenziale», quello per cui una nazione esiste ed è sovrana molto prima che essa lo diventi anche politicamente, ciò che si trasferiva era, per Chatterjee, la forma-nazione, una premessa necessaria all’impianto che sarebbe seguito della complessa discorsività giuridica occidentale (costituzioni, rappresentanza, codici, etc.)107.

32Quell’ambito “vero ed essenziale”, quello «unified and indigenous system of meaning» che tanto i comparatisti quanto i postcolonialistsvolevano abilitare, era, invece, un connotato della cultura. Ne derivava che, al di là degli usi strumentali del trasferimento, «the meaning of the import will be determined by the sense that the local user gives it»108. Esisteva dunque un ruolo attivo dell’ “utilizzatore locale”, una ragione per la quale il transplant, nel caso della forma-nazione come di qualsiasi altro modello o elemento culturale, non poteva leggersi come un “processo meccanico”. Esso coinvolgeva lo «human learning» del contesto di ricezione, e il «learning – sottolinea Graziadei – is both imitative, as it requires following a model, and improvisational and experimental because the model must be tested […] [C]reative interpretation does not take in a vacuum – it takes place in a cultural context»109.

33Si riapriva alla cultura. Sposare la teoria «culturalista», significava però mettere sullo stesso piano diritto e lingua naturale, istituzioni e cultura; significava da una parte riconoscere il ruolo creativo del contesto di ricezione, e dall’altra escludere, a causa di quello, la plausibilità dei trasferimenti, destinati pertanto all’insuccesso quando non anche all’induzione del nocumento a causa della specificità del contesto stesso; significava, comunque, gravare di responsabilità il luogo di destinazione, il contesto di ricezione; significava mettere in conto uno spazio di travisamento, l’errore materiale della traduzione, creare l’alibi del fallimento; significava, infine, escludere in via di principio tanto i trasferimenti “prepotenti”, quanto quelli, per così dire, “miti”.

4. Dalla global modernity alla global difference

34Davanti dunque alle incoerenze che derivano al processo dei trasferimenti tanto che si percorra la via della civilizzazione quanto quella della cultura, davanti all’ineleggibilità di un unico modello e alla sua traducibilità indolore nello spazio e nel tempo, diventa fondamentale, più di tutto, conoscere, riconoscere e riferire le differenze.

35Guardando ai processi, alle politiche di traduzione, si è potuto dimostrare che, partendo da quelle che sembravano “incommensurabilità”, la traduzione non neutralizzasse le relazioni tra forme di conoscenza dominanti e dominate, né producesse corrispettivi capaci di mediare adeguatamente tra le differenze; essa produceva e produce semplicemente quella «relazione parzialmente opaca» che si suole definire “differenza”110. Nella global modernity intesacome modo “globale” di leggere il mondo contemporaneo, Arif Dirlik ha introdotto il riferimento alla global difference, sottolineandole contraddizioni della modernità ed evidenziando la necessità di coglierne di “alternative” 111 (o “multiple”), di valorizzare la persistenza di tradizioni, di civilizationallegacies112 e, quindi, di differenze. In quest’ottica, la differenza culturale non appare più come arretratezza, ma è concepita come alternativa a concetti eurocentrici, o meglio, universali. Invece di riprodurre la temporalizzazione della differenza e i suoi diversi gradi di sviluppo, la globalizzazione promuove uno spatial turn in cui progetti di modernità culturalmente diversi e concorrenti possono essere pensati fianco a fianco, contemporaneamente. Si tratta di capire quale significato possa essere attribuito, nel passaggio al mondo moderno, alle diverse risorse culturali di società non occidentali. Uno degli esiti di questa apertura è nella teoria delle multiple modernities113. Partendo dall’equazione modernizzazione=occidentalizzazione, alla base dei progetti di legaltransplantnella stessa storia europea, questa teoria, sviluppata da Johann Arnason114, Bjorn Wittrock115 e Goran Therborn116 sul lavoro primigenio di Schmuel Eisenstadt117, ha esaminato le dinamiche culturali di altre civiltà, è andata oltre «[the] earlier binaries of “civilized” and “non-civilized”, modernity and tradition», e ha messo in crisi l’assunto alla base dei processi di trasferimento. L’atteggiamento critico nei confronti della teoria della modernità, dell’eurocentrismo e della sua «linear convergence», lasciava leggere l’espansione globale della modernità non come «a process of repetition but as the crystallization of new civilizations»118. Ammettere l’idea di “multiple modernities” significava concedere la possibilità di essere moderne (beingmodern)a diverse culture119, significava pluralizzare le linee di sviluppo della modernità, significava adottare una «intercivilizational perspective»120.

36Dall’osservazione tutta volta alla valorizzazione delle differenze, spesso derivava il riscontro di “singolari paralleli”. Victor Lieberman in un ambizioso progetto, ha constatato per esempio simili sviluppi di consolidamento territoriale, di centralizzazione amministrativa, di intensificazione del commercio e infine di integrazione culturale ed etnica tra Birmania, Siam e Vietnam da un lato e processi di formazione statale in Europa dall’altro121. Anche la creazione, indipendente dall’Europa, di opinioni pubbliche e altri campi di produzione culturale è diventata sempre più oggetto di osservazione, in parte con espliciti riferimenti a parallelismi con il Rinascimento o l’Illuminismo europei122. L’occidentalità non era più l’ “autentica” forma di modernità, pur conservando la sua posizione di riferimento per le altre123.

37Nonostante quest’apertura alla differenza, però, nonostante la maggiore disponibilità di informazioni e fonti derivata proprio dal global differentapproach su culture e tradizioni extraeuropee, la curiosità degli storici occidentali è descresciuta proporzionalmente124. È stato l’impatto con la globalizzazione e con la crisi, o meglio, con la presa d’atto di una obsolescenza dei modelli occidentali a determinare per una visione più ampia del diritto e della cultura, per un’attenzione maggiore della storia verso una realtà oggi come non mai risultato di innegabili «mishmash, borrowings, mixtures»succedutisi nel tempo125. Le istanze multietniche e multiculturali hanno fatto il resto, rompendo il logocentrismo e l’autoritarismo dei sistemi concettuali e comportamentali di una cultura che si riteneva superiore o unica, di una cultura che “non si tiene più insieme”, determinando la perdita di influenza delle sue ideologie “forti”126 e l’indebolimento delle sue storiografie tradizionali. Se, poi, fino ad un certo momento il ricorrere ad un trasferimento giuridico poteva essere interpretato come «an open admission of weakness or lack of expertise»127, la globalizzazione ha riscritto questa criticità: le dinamiche di dominio sembrano essersi infatti scomposte (e magari ricomposte) in formati che non coincidono con quelli della vecchia statualità. Si è detto del graduale scollamento del diritto dal contesto sociale e, allo stesso tempo, del superamento, per dirla con Bertrand Russell, del cd. “atomo logico” dello Stato128 in vista di una quasi naturale omologazione a livello planetario delle sfere in cui si verificano gli sconfinamenti, quella cioè politica, economica e culturale129. I «modelli», le istituzioni trasferite sembrano meno avere a che fare con identità nazionali e più con funzionalità tecniche che emigrano inconsapevoli di radicamenti culturali statal-nazionali. Ecco come si conferma l’ambivalenza del trasferimento, ora come «occasione di crescita e riforma dei sistemi istituzionali, facilitatore del dialogo e della convivenza internazionale e interna», ora come «strumento di dominio e comunque veicolo di omologazione»130.

38Nell’intento di realizzare il miglior ordinamento possibile, forse, ad oggi, meglio del “modello” si presenterebbe e rappresenterebbe il “messaggio”. Il messaggio, come suggerisce Grossi, «è un contributo al rafforzamento d’una riflessione in ricerca, […] non esige passività, non esige obbedienza. Esige […] ascolto rispettoso e confronto con gli attuali valori, esige una comparazione dialettica, dove le rispettive diversità non solo non veng[o]no annullate o contratte, ma s[o]no messe in evidenza»131; un dispositivo nobile di comunicazione, dunque, attivato dal giurista e mediato dallo storico del diritto, che ascolta, traduce, comprende, valorizza, interiorizza, discute e immagina, in un momento fortemente creativo, il nuovo, moderno, diritto. Mettersi in ascolto non è facile, presuppone la prospettiva globale, una sensibilità interdisciplinare e la riabilitazione del ruolo dello storico del diritto. La necessità di una prospettiva globale è fondamentale per superare il limite per così dire “psicologico” dell’osservatore, quello che lo costringe a un suo (personale) modo «of intellectually grasping and structuring the world», contingente quanto (e forse anche di più) della cultura alla quale appartiene132. Poiché questo modo di guardare è inevitabile ma non «fix and determined (just as cultures do not have sharp boundaries or fixed identities)», esiste una responsabilità dell’osservatore, quella di non essere autoreferenziale, ma di ascoltare «the Others’ perspective» e, superandone eventuali paradigmi epistemologici e morali, tradurla in un messaggio133.

5. Spazio, tempo e storia globale

39Dopo aver visto come alla base dell’impostazione narrativa della globalizzazione possa addursi il fenomeno dei trasferimenti, dei legaltransplante, più in generale, della circolazione dei modelli; dopo aver moltiplicato i punti d’osservazione del fenomeno ed averne svuotato di significato l’oggetto; dopo aver visto quanto sia limitante (e comunque fallace) l’illusione della corsa ad una modernità; dopo aver destrutturato la prospettiva eurocentrica; dopo questo, resta da verificare come spazio e tempo si comportino, e quanto complesso sia in tutto questo quadro dinamico il ruolo del giurista e dello storico del diritto in particolare.

40Se, come dice Manuel Castells, esiste un livello più profondo del fenomeno globale, un livello in cui le fondamenta materiali della società, del diritto, dello spazio e del tempo vengono trasformate e organizzate dallo «spazio dei flussi» e dal «tempo acronico»134, allora la difficoltà per il giurista “in ascolto” non è solo quella di restare sensibile alla «Others’ perspective», ma anche di valutare l’opportunità, e maturare la capacità, di riconoscere e analizzare quella «concatenazione verticale e orizzontale tra diritti nazionali, diritti sopranazionali e diritto globale» che dallo “spazio dei flussi e del tempo acronico” deriva; questo perché – dice Sabino Cassese – «ancora non conosciamo la incompleta, ma già molto sviluppata, grammatica giuridica universale, mentre conosciamo troppo bene quella degli ordinamenti giuridici indigeni»135. Il progetto, dunque, di una «grammatica giuridica universale» è già avviato e si sta lentamente realizzando grazie al contributo di spinte diverse, non ultime quelle delle periferie (non per forza ex colonie) 136. Il giurista ha la responsabilità di non ignorare e, meglio, mantenere vivo l’ascolto anche di questo messaggio, al fine di definire un diritto coerente al suo tempo137.

41Prendendo il passo dei Global Studies, della Global History, della Legal Theorye del Comparative Law, anche la storia del diritto ha rielaborato questo elemento della “concatenazione” e ha riletto, seppure in ritardo, quelle “spinte”, quegli intensi cross-bordercommunicationprocesses succedutisi nel tempo, anche tra contesti diversi da quelli di origine e destinazione dei transplant, e non per forza poi d’area coloniale. Thomas Duve, in particolare, ha raccolto di recente la sfida di una nuova storiografia giuridica, sganciata dai limiti spazio-temporali della statualità, della modernità e dell’europeità, e ha tradotto nell’ “intreccio”, nell’ «entanglement» tra storie nazionali e transnazionali il nuovo approccio concettuale della storia del diritto alla «global perspective». Eredità dei postcolonialstudies,il concetto di entanglementapplicato alla storia implicava che nazioni e civilizzazioni non venissero considerate come entità cristallizzate in un dato tempo e in un dato spazio, ma fossero percepite come momenti di un’acronica e fluida circolazione globale. Ciò permetteva di focalizzare l’attenzione sulle numerose dipendenze e interferenze, connessioni e interdipendenze che si verificavano in condizioni di disuguale ripartizione del potere tra contesti diversi e, dunque, di qualificare la costituzione del mondo moderno come “relazionale”138. Così facendo si superavano le consuetudini consolidate che, in un primo momento legate al rilancio degli studi di storia giuridica medievale (mi riferisco, in particolare, a Erich Genzmer e alla sua proposta al congresso fiorentino della Société pour l’Histoire desDroits de l’Antiquitédel 1952 di una grande impresa internazionale che superasse le strettoie dei nazionalismi ponendo al centro delle proprie ricerche il fenomeno europeo della diffusione del diritto romano)139, volevano i processi transnazionali e la formazione stessa del mondo moderno come risultato di “diffusioni”. Questa lettura localizzava in uno spazio, l’Europa, e in un tempo, quello delle conquiste, le dinamiche della storia mondiale e ne intercettava un’unica direzione. Una lettura riduttiva che, per quanto nobilitata di recente dagli studi sull’ibridizzazione giuridica140, non ha debitamente tenuto conto del ruolo costitutivo delle interazioni tra regioni e nazioni, ma anche tra Europa e mondo extraeuropeo, nella rispettiva formazione delle società moderne. Lo stesso sviluppo europeo non si potrebbe spiegare senza un’osservazione che tenga conto della sua dimensione “esterna” o “di ritorno”141: Victor Tau Anzoategui, in questo senso, ha sostenuto l’impossibilità di comprendere e descrivere il diritto comune in Spagna senza guardare alla sua espansione nello spazio atlantico142. E si potrebbero fare anche altri esempi. Arnulf Becker Lorca ha decriptato queste “relazioni” e valorizzato i movimenti di “ritorno” (o controtransfer) dalle periferie al centro propulsore, focalizzando così l’attenzione su dinamiche grazie alle quali categorie e modelli d’uso comune nel diritto di matrice europea, parzialmente assorbiti dal sistema di destinazione, venivano restituiti all’Europa, in un ideale dialogo a due direzioni alla base di un progetto coerente di appropriazione prima e di universalizzazione e globalizzazione poi143. In questo senso Lorca finiva col parlare di «a distinctive semi-peripheral legal consciousness defined by a “particularistic universalism”»144. Una dimensione ottimistica, dunque, del processo che superava il pessimismo di Boaventura Sousa Santos, per cui «to respond to […] transnational imperatives, local conditions are disintegrated, oppressed, excluded, destructured, and eventually, restructured as subordinate inclusion»145.

6. Localitiese altre periferie

42Sfuggendo, quindi, ad un’osservazione dedicata alla storia dei fenomeni “ricettivi” del diritto europeo in aree non-europee, alle forme di transfer piuttosto che alla disseminationdi conoscenze, idee e ideologie, alle convergenze e alle deduzioni globali, e, dunque, alle asimmetrie dell’esperienza coloniale146, Duve ha tradotto in un lessico familiare tutte queste intuizioni postcoloniali, e riabilitato l’immagine delle «interwined networks, with no beginning and no end» anche per la storia del diritto147. Da qui ha lanciato l’auspicio di una reimpostazione dell’approccio tradizionale della disciplina, dei suoi assunti fondanti e delle sue scelte metodologiche, proponendo un atteggiamento più critico, di retrospettiva e prospettiva, che partisse da un’apertura totale della storia transnazionale alla prospettiva globale, e ridimensionasse l’Europa a «global region»: un atteggiamento, dunque, che abilitasse l’indagine storiografica di «entangled normative orders»148 e valorizzasse il ruolo della comparazione e della traduzione, nel tempo e nello spazio149. Da quest’ultimo punto di vista, infatti, così come una ricostruzione in chiave comparatistica non può prescindere dal confrontare due contesti appartenenti a discorsività giuridiche di un altro tempo o di un altro spazio, anche per la traduzione è necessario coinvolgere una dimensione temporale (traducendo dal passato al presente) e una dimensione spaziale (traducendo da un linguaggio ad un altro). «We need not only to compare, but to actively translate»150: nessun atto meccanico, però, ma un processo creativo, combinato all’approccio comparativo. «Lost in Translation?», si chiedono Fassbender e Peters. Si auspica di no, con la premessa però che si abbia chiara consapevolezza del fatto che tanto nella comparazione quanto nella traduzione, gli strumenti dell’osservatore, le categorie d’uso, per intenderci, sono inevitabilmente legate alla sua storia, al suo diritto, alla sua cultura e, cosa ancora più evidente, «not in every part of the world and in any time [they] correspond to the same phenomena [, they ] are not merely cloacked differently while being “functionally” identical». Diversamente da quanto potrebbe apparire, le categorie non sono mai «historically empty, but are impregnated by the respective ideational, cultural, and social context»151.

43Ripensata come «a constant diachronic and synchronic process of “translation”»152 o, meglio, of translations, dove il plurale è a rappresentare il triplice senso che deriva dall’etimo comune di trans ducere (condurre al di là) nello spazio, nel tempo e nel linguaggio, la storia del diritto può dunque sganciarsi dal passato e dalla prospettiva sopranazionale eurocentrica (la «master narrative»153), rileggere le spazialità giuridiche, parlare di aree giuridiche fluide o spazi transnazionali154, abilitare concetti come “multinormatività” o “traduzione culturale” e, soprattutto, aprire a discorsività intra- e interdisciplinari, sapendo di doversi confrontare con strumentari diversi sì, ma necessari per leggere il diritto come un processo continuo di “traduzione” culturale.

44«The more international law extends its reach over nonstate actors, the more they become involved in international relations, transnational dialogue, and conflict […] Alongside the arrival of new actors on the international states, a multitude of transnational agreements, institutions, and adjudicative tribunals has emerged, reflecting the corresponding move from international to transnational law»155. Quando, quasi sessant’anni fa Philip Jessup, dopo esser stato nominato giudice della Corte Internazionale di Giustizia, sviluppava l’idea di un transnational law come sintesi di un diritto che raccogliesse nella sua definizione «all law which regualates actions or events that transcend national frontiers», non aveva altro obiettivo che quello di espandere e rimpiazzare la nozione tradizionale di diritto internazionale156; non poteva immaginare la portata che avrebbe avuto la sua intuizione. Se una delle sfide della Global Historyè appunto quella di immaginare e costruire più prospettive ed esperienze, in questo senso, globali157, sul presupposto che «there is no single global history, no universal law to be discovered resulting in a unidirectional evolution of the world»158, che fosse il transnationalapproachquello in grado meglio di tradurre e rappresentare questa combinazione tra globale e locale? Un approccio, cioè, che guardasse ai trasferimenti, alle reti, alle connessioni, al rapporto tra diversi attori e diverse regioni, ma che al tempo stesso non cadesse nella tentazione di tracciare linee di continuità tra un tempo, uno spazio e un altro? Un approccio che superasse la diffidenza nei confronti del cosiddetto dark side del fenomeno globale, quello appunto a sé insito delle storie locali159, nella consapevolezza che «Good “Global history” is by no means totalhistory, but the combination of local histories, open for global perspectives»160?

45A proposito di localhistories,negli ultimi anni si è registrato un vero e proprio «turn to the local». Per Luis Eslava «the current international interest in local jurisdictions and the global support for the decentralization of nation-states, particularly in the South, has recently become the object of attention of several (international) legal scholars»161. Seguendo questo recente indirizzo lo stesso Duve è ritornato sulla necessità di moltiplicare non solo gli attori, ma anche i contesti di studio, lavorando con solidità sulle fonti con gli strumenti tipici delle aree coinvolte. Anche Bruce Mazlish, uno dei pionieri della Global History, sottolineava quanto fosse necessario diversificare e concentrare l’attenzione su più soggetti, combinare dialetticamente globale e locale, tempo e spazio e, per riuscire al meglio, rafforzare le reti interdisciplinari dei team di ricerca162. Jürgen Osterhammel parlava di una «tension between the global and the local», cruciale per un approccio globale163. In un impianto in cui tutto è allo stesso tempo locale e globale, (si parla spesso di localizedglobalisme, viceversa, di globalizedlocalism), glocaldirebbe Zygmunt Bauman164, le localitiese le loro storie non possono più considerarsi una «residual niche», ma costituiscono esse stesse «a matrix» della narrazione globale165: «interacting and contracting with other jurisdictions from all over the world, - esse finiscono col - forming global networks, and becoming involved in transnational and international institutions»166. Costruire reti di questo tipo, significa avviare un progetto di universalità, e in qualche modo questo progetto di universalità è un nuovo progetto di modernità, da realizzare167. Muoversi da un nodo ad un altro della rete, significa, tanto per la comparazione quanto per la traduzione, muoversi da una periferia ad un’altra o, meglio, come ha efficacemente suggerito Bauman, in un «pianeta multicentrato» come quello attuale168, da un centro ad un altro. Questo vale sia per il tempo che per lo spazio, con il risultato che la comparazione e la traduzione tra diversi sistemi giuridici fondono l’approccio dello storico del diritto con quello del geografo del diritto. Emergono così vere e proprie conjunctures, risultato di una sovrapposizione di “costellazioni” storico-geografiche nel contesto globale. Michael Geyer e Charles Bright hanno parlato di«origini regionali dell’integrazione globale»come di una concatenazione di crisi regionali e in fondo autonome, che devono il loro impulso non ad una dinamica di lungo corso, ma alla contingenza storica169.

46Più che a costellazioni e conjunctures,Mireille Delmas-Marty ha preferito riferirsi provocatoriamente a ensembles«that are too changing and unstable to constitute true legal systems», proprio a voler neutralizzare il concetto di sistema che comunque dietro quelle si cela170. Cambiamento e instabilità, asincronia e frammentazione sono i caratteri connotanti questo stato di diritto in cui militano pluralismo e competizione tra gli ordinamenti, mentre emerge con forza la dimensione transnazionale171 di un’interazione da considerare «in a more nuanced fashion». Assumendo che le interazioni multiple (giurisprudenziali e legislative, spontanee e imposte, dirette e indirette) su diversi livelli nella sfera politica globale stanno contribuendo «to a great societal and funcional disorder», Delmas-Marty indirizza verso pratiche più equilibrate tra «purely horizontal and purely vertical interactions»172. Come si può realizzare questa harmonization? Posto che è funzionale al pluralismo e che non è sinonimo di uniformazione, essa si realizza se si preserva la flessibilità, riconoscendo un «national margin of appreciation» come elemento di compatibility. Non possono esserci dei confini rigidi: attraverso la combinazione di processi di integrazione verticale ed orizzontale si viene a realizzare l’armonizzazione173. Ad oggi il processo più ambizioso di legalintegrationè quello della unification by hybridization. L’hybridization, nota Moritz Hartmann, implica «the linking of new regulatory instruments, originating from national, regional and global organizations in order to synchronize the different rhythms of regulation»174. Se unificare significa trasformare il plurale nel singolo, il multiplo in uno, «the creation of identical rules necessitates the separation of unification by transplantation from unification by hybridization»175. «Transplantation, by extention or exportation of norms from one system to another, only refers to a unilateral process of unification», vale a dire, il fenomeno del transplant è configurabile in un rapporto di 1:1, essendo finalizzato all’unificazione, che è di per sé un processo unilaterale. Al contrario, l’hybridization descrive «a multilateral process merging legal structures at regional and global levels by integrating different systems, thereby incorporating elements of transnational legal diversity into different systems». Considerando tre livelli, quello locale, regionale e internazionale, Delmas-Marty propone una «combination and adaptation of the three coordinating through-measures as a compromise to convert legal plurality into ordered pluralism»176. Evidentemente un ritorno al plurale che merita una riflessione in più.

7. Ritorni al passato

47Parlando di globale e locale, di pianeta multicentrato, e ancora di reti, entanglements, ensembles,conjunctures e costellazioni, se a persistere è il fenomeno in sé della circolazione del “messaggio ”, a mutare è la riconoscibilità territoriale dei contesti di produzione177. Si parla sempre con maggior convinzione di “deterritorializzazione” e “denazionalizzazione”178. Il dato comune è nella sensazione che il paradigma westphaliano abbia fatto il suo tempo, che gli stati non siano più i soli attori dell’arena internazionale. Santi Romano, pur rimanendo fedele all’idea che l’organizzazione statale rappresentasse un progresso rispetto a quella “pluralistica” medievale, l’aveva profetizzato179: «Dio o demonio, realtà vera o idolo falso, salvezza o perdizione, lo Stato è diventato il primo, se non l’unico attore nella scienza del mondo -, ma di per sé non può – escludersi che gli Stati o anche solo taluni di essi, che si trovino in determinate condizioni, non debbano, col tempo, più che svolgersi, rimanere, in un certo senso, compresi e forse assorbiti in maggiori organizzazioni non propriamente statuali»180. Roberto Ago l’aveva immaginato come un «must»: «l’ordine giuridico internazionale non si ispira oggi in linea generale ad alcun criterio di territorialità o continentalità, nè ad alcun principio di confessionalità od altro»181.

48C’è chi, come Michael Hardt e Antonio Negri, ha salutato questo momento della narrazione globale come l’alba di un nuovo ordine: «l’impero si sta materializzando proprio sotto i nostri occhi. La sovranità dello stato-nazione, in declino, sta assumendo una forma nuova, composta dalla sovranità di una serie di organismi nazionali e sovranazionali uniti da un’unica logica di potere». Questa nuova forma di sovranità “globale” è ciò che Hardt e Negri chiamano “Impero”. L’“Impero” emerge al crepuscolo della sovranità europea, non stabilisce alcun centro di potere e non poggia su confini e barriere determinate: si tratta di un apparato di potere decentralizzato e deterritorializzante che progressivamente incorpora l’intero spazio mondiale all’interno delle sue frontiere aperte e in continua espansione. L’impero amministra identità ibride, gerarchie flessibili e scambi plurali modulando reti di comando: è «un arcobaleno globale»182.

49Fino all’inizio del diciannovesimo secolo, l’Europa non conosceva il linguaggio dell’egemonia, l’Europa semplicemente non era l’Europa, non era cioè un’unità tendenzialmente omogenea, ma frammentata e segnata da diseguaglianze e disparità di potere183. Lo Stato esisteva come entità portante di un nuovo ordinamento spaziale territoriale, che aveva carattere interstatale ed eurocentrico; esisteva cioè come appartenenza ad un nomos, ad uno juspublicumeuropaeum184. E lo Stato, in quanto tale, poneva e viveva di frontiere: a differenza della società, «realtà complessa e slabbrata, senza immedesimazioni potestative, [con] confini che non si trasformano mai in frontiere»185, era spazialmente finito e definito. Col tramonto degli imperi continentali186, si mitizzò la sua omogeneità, credendola meglio dei tradizionali legami religiosi, etnici, dinastici o regionali che tenevano in piedi gli imperi, ma che erano destinati a dissolversi con quelli nel corso di un vasto e inevitabile processo di modernizzazione. Lo Stato nazionale rappresentava, in breve, la cifra della storia del progresso europeo187.

50Negli ultimi decenni, questa tendenza progressista ha subito un brusco arresto, il mito stesso dello Stato è collassato, avviando piuttosto i suoi resti ad una trasformazione senza ritorno. Daniel J. Elazar ha parlato di quella attuale come di una fase “postmoderna” nella quale, di fatto, la sovranità statalnazionale ha perduto le sue caratteristiche sostanziali188. Quei boundaries, queiborders, quei confini che sono stati funzionali alla sua stessa definizione si rivelano oggi permeabilissimi189: Graziadei parla, a tal proposito, di transfer che li attraversano “regolarmente”, a dispetto di quanto i comparatisti pensavano e pensano a proposito delle famiglie e delle tradizioni giuridiche190. Il controllo statale sul territorio è stato svuotato di significato e reso vulnerabilissimo dalle connessioni, vale a dire dal trasferimento continuo di merci, informazioni ed esseri umani all’interno di vaste reti191, i cui nodi non coincidono più e soltanto con i singoli Stati. Il “flusso” continuo attraverso le infrastrutture tecnologiche dell’economia dell’informazione192 mette in crisi anche la concezione di popolo come unità organica: la sua presunta omogeneità è ormai un mito con funzioni politiche, che aveva come unico effetto la “localizzabilità” del proprio e dell’estraneo193. L’attivazione dei processi di rete, l’imporsi della società multiculturale hanno destabilizzato questo effetto, perché nel glocalgli spazi dell’estraneo si confondono con quelli del “proprio”194.

51Nel dialogo sovra e transnazionale, ad ora, parrebbero essere tre gli orientamenti connotanti il nuovo ordine: la tendenza alla deformalizzazione, lo sviluppo verso la frammentazione e, infine, l’impero195. Non ci sarebbe spazio per lo Stato e i suoi elementi costitutivi. Continuare a proporre un impianto di «legal isolation in a globalized setting» risulterebbe impossibile196. La sovrapposizione di molteplici legami di appartenenza determinerebbe un ridimensionamento della centralità del paradigma statale e, privilegiando altri tipi di aggregati a livello regionale e transnazionale, un ripensamento dell’identità in un contesto plurale. L’Europa, culla della negoziazione, della costruzione del consenso, in questa trasformazione vanterebbe un ruolo fondante, di «laboratorio, in cui i problemi con cui si confrontano tutti i continenti, anche se in misura diversa, po[ssono] essere almeno in parte risolti e negoziati»197. Nel processo di globalizzazione, dunque, il laboratorio europeo avrebbe una funzione costitutiva di “punto medio”198, di trampolino all’universale. E se la teoria della comunicazione di Jürgen Habermas ci ha insegnato che questo tipo di comunicazione che porta verso la condivisione e il consenso, vale a dire verso l’assunto per cui tutti la pensano allo stesso modo, è quella ideale, possiamo sognare, confida Bauman, che «l’unica [negoziazione, l’unica] uguaglianza [da realizzare] sia quella dei diritti umani»199, e che dunque una storia globale sia pensabile (e auspicabile) solo come storia dei diritti umani.

52Con la crescente perdita di potere da parte degli stati nazionali e le esperienze di integrazione sovra e transnazionale, ci si trova realisticamente impegnati a scandagliare la tradizione giuridica europea per rappresentarsi possibili «future[s] of the past», direbbe Armitage200, e valutare alternative già praticate201: uno degli effetti dell’alterazione spazio-temporale dettata dal fenomeno globale è, infatti, «a breaching of chronological boundaries», premessa metodologica di un’operazione di questo tipo. Indagando quella che Carducci definisce la dimensione “nascosta” della globalizzazione, vale a dire ciò che sta “dentro” le istituzioni e riguarda «tutti gli aspetti del suo processo storico-sociale, inclusi i suoi soggetti e le ricezioni che su di essi producono le comunicazioni tra luoghi»202, vediamo come «before the great age of nation-states, before the cementing of a regime of nation states, all history was ipso facto transnational or international history»203. Ci si può spingere nella ricerca di un «before», di una rappresentazione storica legittimante lo stadio attuale, fin’anche alla suggestione di un’alternativa neo-medievale.

53Per Grossi il medioevo fu originale perché fu fattuale: poiché i fatti nascono nel particolare, sono voci che vengono dal basso, essi non tradiscono la domanda storica, non la mistificano con dei modelli204. Il diritto medievale era all’insegna del particolarismo più esasperato, su diversi fronti; ma anche di un sostanziale pluralismo, il pluralismo giuridico, che lungi dall’essere una concessione dello Stato (che non c’era), rappresentava «l’assestamento spontaneo della dimensione giuridica di una civiltà che vive[va] autonomamente e con autonomia si realizza[va]». Come coscienza collettiva, esso generava «forme giuridiche plastiche, dalla intensa storicità»; come diritto le riconduceva alla globalità e alla complessità della società, eludendo ogni cristallizzazione politica ingombrante. «In un mondo politico-giuridico senza burattinai invadenti, il pluralismo – dice Grossi – è nelle cose. Non una fonte unica di produzione che impone canoni sui quali misurare la giuridicità, ma pluralità di fonti, convivenza di fonti e di diritti: non a caso Santi Romano guardava al medioevo come a un laboratorio di ordinamenti giuridici conviventi e covigenti»205.

54Se un recupero va fatto, deve essere un recupero pluralistico: una forma di pluralismo latente, contestuale alla globalizzazione giuridica, però, esiste già. Un pluralismo fattuale, che lo Stato continua a ignorare nonostante la sua forza e la sua virulenza, un pluralismo di cui i tanti giuristi statalisti, denuncia Grossi, «beatamente si disinteressano». Bisognerebbe ripartire dalla legalconsciousness206: se il diritto è «una ragione del vivere civile e […] la sua proiezione più naturale è quella universale»; se, per questo, trascende e per certi aspetti ripugna le miserie di confini invalicabili; se l’isolazionismo moderno e post-moderno ha costretto e messo in standby «l’esigenza politica e culturale di paesaggi più ampii, di unità più comprensive»; se l’esperienza giuridica più vicina alla dialettica universale/particolare è quella dello iuscommune e dei suoi iura propria207, dell’affermazione delle autonomie e dell’integrazione «plastica» di universale e particolare; la coscienza giuridica dovrebbe maturare una posizione d’ascolto di questo messaggio che viene dal passato, in cui scienza, prassi e regole si compenetrano in una trama che, se pur unitaria, resta articolata e complessa208. Nel 1962 Arnold Wolfers tracciò l’ipotesi di un tempo di New Medievalism, ovvero la direzione verso cui sembrava convergere una serie di trasformazioni della politica internazionale: «la perdita di distinzione fra dimensione interna e arena internazionale, l’affermarsi di lealtà multiple e l’esistenza di livelli sovrapposti e confliggenti di potere/autorità»209. In realtà, come ha di recente commentato Dimitri D’Andrea, per quanto suggestiva, questa del New Medievalismresta un’ipotesi incapace di superare lo spazio della metafora, soprattutto per la sua insostenibile supportabilità dal punto di vista analitico-scientifico210. Solo nel 1977, con il suo The Anarchical Society, Hedley Bull sarà meno approssimativo di Wolfers, e produrrà delle argomentazioni che renderanno più plausibile un ingresso del concetto, se pur acerbo, nel panorama della filosofia politica, delle relazioni internazionali e, dunque, della storia del diritto211. «New Medievalism indica la diffusione e la generalizzazione di forme politiche post-sovrane, di tipi di potere politico legittimo ai quali la categoria di sovranità non è più applicabile, perché non possiedono più la titolarità esclusiva del comando e dell’obbligo politico»212. Parlando, indirettamente, di crisi della sovranità, Bull non intendeva riferirsi a quella, comunque in atto, dello Stato-nazione (di cui riconosceva la «disintegrazione»): le nuove entità politiche che vedeva profilarsi all’orizzonte vivevano una condizione di “ibridità” irriducibile semplicisticamente alla sovranità213. Posto che la semplice interdipendenza e la compressione spazio-temporale non implicassero l’unificazione politica del globo e non contraddicessero al tempo stesso la perdurante attualità dei confini e la suddivisione del mondo in unità territoriali discrete, Bull poneva il New Medievalismin attesa, legandolo al declino della categoria che definisce la modernità politica, la sovranità.

55Per quanto oggi siano ben evidenti tanto l’inadeguatezza concettuale della sovranità quanto, in un clima di crisi e “cessioni”214 davanti alle imprevedibili e veloci trasformazioni socio-politiche contemporanee, la delega permanente degli apparati rappresentativi all’eccezionalità, i processi sono ampi e profondi e la diagnosi di un’alternativa neo-medievale resta prematura. Ci sarebbe però un’alternativa interpretativa, non legata direttamente agli esiti distruttivi della sovranità, ma a quelli costruttivi della giurisprudenza e del suo nuovo tempo di protagonismo. In un momento in cui la dialettica con l’altro è permanente e l’aspetto privilegiato della narrazione è quello della crisi e del conflitto, la fattualità sorpassa la normazione, anticipandola in un gioco di ruoli senza precedenti. Se l’Europa è il laboratorio della negoziazione e della costruzione del consenso, gli eredi dei grandi tribunali cinquecenteschi e delle grandi conferenze internazionali ottocentesche sono i tribunali e le corti internazionali, che verificano il conflitto e ne traducono gli esiti in nuovo indirizzo giuridico. Se le premesse globali dei progetti di universalità dalla Respublica Christiana al diritto internazionale ottocentesco, così come condotti dai paradigmi fondanti della cristianità, dell’europeità e della civiltà, hanno fatto il loro tempo, quelli attuali della crisi e dell’eccezione permettono di ipotizzare nuovi scenari.

8. La storia del diritto come storia di profondità e la re-invenzione della tradizione

56Al Congresso internazionale di diritto comparato tenutosi a Parigi in occasione dell’esposizione universale del 1900 si evidenziava come la nuova scienza del diritto comparato, di cui si auspicava l’affermazione, dovesse individuare «tendenze comuni agli ordinamenti con caratteristiche economiche e sociali assimilabili, per indicare così linee ideali di progresso giuridico, […] elaborare modelli di politica del diritto cui informare lo sviluppo di quegli ordinamenti, e contribuire così a confezionare il diritto comune dell’umanità civilizzata»215. Questo nonostante qualcuno non condividesse un simile approccio universalizzante, mitigato solo «dalla credenza secondo cui si dovessero esaltare i tratti comuni nel solo ambito di aree il cui perimetro fosse definito dalla condivisione di un medesimo livello di civilizzazione giuridica»216. Il mito di un “diritto comune dell’umanità civilizzata” o, come anticipò Emerico Amari, «della civiltà universale»217 si confermò nel tempo tra gli intenti della disciplina. Ripensato in una prospettiva coerente al contesto attuale, esso ha perso il riferimento all’ “umanità civilizzata” e conservato l’obiettivo di un’unificazione internazionale del diritto, per quanto il dibattito teleologico sulla disciplina sia ancora oggi aperto218. Che si parli di “diritto comune” o di diritto globale, affinchè si realizzi il mito dell’universalità è necessario che i soggetti che partecipino al progetto condividano una coscienza (giuridica) comune. Nell’Ottocento era di dominio comune che tale «conscience commune» non si trovasse in «manière complète» che presso i popoli che appartenevano alla civiltà euro-americana, e solo parzialmente presso i popoli che aderivano «d’une facon limitée à cette civilisation»219 (difettando spesso completamente presso i popoli barbari o selvaggi). Questi ultimi, però, non erano esclusi del tutto. Il limite della non-appartenenza alla coscienza giuridica comune diveniva paradossalmente il requisito del dialogo positivo, per cui le relazioni con i popoli non-civili erano quelle quelle liberamente regolate e sottoscritte per trattato220.

57Quella stessa «coscienza comune» di cui aveva parlato Frantz Despagnet diventava nel Trattato di diritto internazionale pubblico di Pasquale Fiore «comunanza di diritto». Più critico nella ricostruzione dei rapporti tra civiltà e diritto, l’internazionalista italiano denunciava come (lo dicevo prima), per quanto una comunanza di questo tipo fosse sicuramente auspicabile, ancora tra diciannovesimo e ventesimo secolo, non era attuabile. E le ragioni erano presto dette: parlare di «comunanza di diritto» significava ammettere, implicitamente, l’esistenza di una perfetta uguaglianza giuridica anche tra quegli Stati presso i quali quelle stesse idee di diritto, considerate come fondamentali ed essenziali dal «comune consenso», non si erano sviluppate221. Occorreva dunque pazientare, raccomandava Fiore, confidando nella scienza e nella civiltà: si sarebbe così giunti «gradatamente» ad una codificazione di alcune parti del diritto, mentre scienza e civiltà avrebbero facilitato l’accordo su altri punti controversi. Quella «comunanza di sentimenti giuridici» aveva avuto il suo sviluppo e la sua storia, ma la sua «evoluzione», notava Fiore, «non era al certo compiuta»222. Si sarebbe aperto a popoli appartenenti «a livelli diversi di cultura e di civiltà»223; l’interesse commerciale, affermava tra le righe Fiore, avrebbe prevalso sul pregiudizio224 e avrebbe spinto verso l’edificazione di un nuovo diritto. Ed oggi quel momento è arrivato. Se negli anni Trenta del Novecento giuristi del calibro di Enrico Finzi o Tullio Ascarelli ne avevano registrato gli esordi225, oggi la globalizzazione ne ha celebrato gli esiti. L’economia e, meglio, i fatti economici hanno segnato i percorsi del diritto, costringendo nel silenzio della legge i suoi operatori a misurarsi con nuove esigenze e urgenze, in uno scambio dialettico che il diritto non ha potuto ignorare. Qualcuno, per questo, ha provato a forzare la stessa definizione di globalizzazione, riconducendola ad un effetto della traduzione contemporanea della Lex Mercatoria226. Ma che ne è stato del progetto di comunanza dei sentimenti giuridici? Sullo sfondo dell’integrazione, forse ad oggi una forma, se pur imperfetta e forzata, di coscienza giuridica globale si è compiuta: frutto della compressione tempo-spazio227 o delle coordinate di un nuovo modello culturale in cui il fenomeno diritto si manifesta come vicenda intellettuale228, essa è divenuta il luogo privilegiato per l’ascolto di un messaggio plurale e diversificato, la proiezione di una deephistory che non conosce confini e che condivide l’approccio critico della comparazione, per nulla scalfito dal dogma giuspositivista e dalle sue mitologie. Se il modello occidentale ha fallito, se lo Stato moderno ha fatto il suo tempo, la risposta al programma globale è venuta proprio da quegli ordinamenti in cui la tradizione giuspositivistica non ha attecchito, o quantomeno ha avuto un ruolo non paragonabile a quello rivestito negli ordinamenti a diritto codificato. Senza la necessità di alcuna cesura rivoluzionaria, che questo discorso pluralista venga da una spazialità diversa come quella, per esempio, degli ordinamenti africani che furono interessati dalla colonizzazione, o dalla tradizione del common law o da un tempo diverso come quello medievale, non importa. Nel primo caso, in particolare, si tratta di valutare e verificare un’esperienza non-europea in un contesto giuridico di tipo consuetudinario, «senza identità comunicativa tra legislatore e destinatari delle norme»; un’applicazione, «nel segno della discontinuità» con i modelli occidentali, di esperienze diverse dalla tradizione continentale, in un contesto ambientale che non era assolutamente in grado di recepire229; il ruolo (“pretorile”) di elaborazione ininterrotta e graduale e di efficace adattamento svolto dalla giurisprudenza coloniale; il carattere di specialità della legislazione coloniale; il rapporto tra sistema giuridico metropolitano e tessuto socio-economico e antropologico-culturale delle colonie, tra controllo del territorio africano e avvio del processo di sfruttamento commerciale.

58Al di là delle suggestioni, e degli ennesimi ritorni al passato, ciò che deve ritornare è il ruolo della storia e della scienza del diritto, ruolo indispensabile di indirizzo e prospettiva di un diritto dinamico230, ma stabile perché radicato nei principi saldi delle costituzioni, da riscoprire come fari certi. L’atteggiamento dei nuovi storici del diritto non può che essere quello di una ‘storia di profondità’. L’aveva detto Fernand Braudel negli anni Quaranta, cronologicamente distante da questi ragionamenti: «la storia che io auspico – scriveva in Storia, misura del mondo – è una storia nuova, imperialista e anche rivoluzionaria, capace, per rinnovarsi e compiersi, di saccheggiare le ricchezze delle vicine scienze sociali; una storia, ripeto, che è profondamente cambiata, che ha fatto notevoli passi avanti, lo si voglia o no, nella conoscenza degli uomini e del mondo: in una parola, nell’intelligenza stessa della vita. La definirei una grande storia, una storia profonda. Una grande storia che punta al generale, capace di estrapolare i particolari, di superare l’erudizione e di cogliere tutto ciò che è vita, seguendo a suo rischio e pericolo le sue strade maestre di verità»231. Una storia profonda, una grande storia, una storia globale che non maturi pregiudizi verso le altre scienze sociali, ma anzi ne condivida i ragionamenti e i risultati, finanche a «saccheggiarne le ricchezze» nel prevalente intento della ricerca della verità, è quella da realizzare; una storia che estenda i suoi orizzonti nel tempo e nello spazio. «Where once historians preferred the microscope, we’re reaching again for the telescope; landscapes as well as portraits are increasingly in the historian’s repertoire; the long shot is once more joining the close-up as a major perspective on the past. No other form of humane inquiry is so well equipped to go wide and to go deep at the same time»232. Una storia di questo tipo è quanto meno necessaria alla costruzione di una coscienza giuridica globale che non sia più e soltanto quella dei popoli d’Europa. Ciò che importa è che si maturi una sensibilità, in questo senso, globale, d’insieme, utile a vagliare diacronicamente e sincronicamente le esperienze giuridiche e a rifondare, più che un positivismo giuridico o scientifico (termini dell’alternativa moderna), un pluralismo scientifico necessario alla re-invenzione di una tradizione233.

Aufsatz vom 23. Juni 2016
© 2016 fhi
ISSN: 1860-5605
Erstveröffentlichung
23. Juni 2016