Artikel vom 14. Februar, 2003
© 2003 fhi
Erstveröffentlichung

Roy Garré:

Non di solo diritto

Spunti di riflessione, ad uso della storia giuridica, sul rapporto fra diritto ed altri ordinamenti normativi

 

§ 1. Introduzione
§ 2. Le norme della delinquenza
§ 3. Il contributo dell'antropologia giuridica
§ 4. Diritto e morale. Diritto come morale applicata?
§ 5. Diritto e costume. L'apporto della sociologia del diritto
§ 6. Altri esempi più in breve: politica, economia, religione, magia
§ 7. Conclusione
 
BIBLIOGRAFIA

§ 1. Introduzione

"Stati nazionali, ordini cavallereschi, conventicole ascetiche, la «Società degli amici del delitto» a cui Clairwil introduce Juliette, sette apocalittiche, racket, corporazioni, comunità dove uno nasce o entra, ogni organismo sociale che postuli se stesso come ordinamento costituisce un terreno idoneo alla cultura normativa" (Cordero, 1978: 903). La straordinaria varietà di questi esempi lascia intuire quanto lo spettro degli ordinamenti normativi 1 possa essere ampio ed eterogeneo. Il diritto in tutto questo contesto non è che un minimo sottoinsieme, storicamente definito e indissolubilmente legato ad altri sottoinsiemi normativi, con cui spesso si interseca in maniera sottile e quasi impercettibile. Nella filosofia del diritto si distinguono tradizionalmente tre grandi fenomeni sociali dotati di componenti normative simili a quelle giuridiche: la morale, i costumi e l'economia 2. In una prospettiva più ampia andrebbero perlomeno aggiunte la politica, la religione e la magia 3, in quanto sistemi ricchi di valenze normative e disciplinanti. In effetti come scrive a questo proposito Bobbio (1994: 206), "siccome non vi è attività umana che non sia stata sottoposta a regole 4 e quindi non costituisca la possibile materia di un insieme di norme, molti e vari sono i sistemi normativi: da quelli che riguardano la vita quotidiana, come il vestire, il nutrimento, il traffico, a quelli che riguardano la vita sociale, come il costume, il diritto, la morale; da quelli relativi al parlare e allo scrivere, come la grammatica 5, la sintassi, la stilistica, a quelli relativi alle varie forme di giochi e di sport 6, alle diverse precettistiche delle arti e dei mestieri". Si tratta di campi della vita sociale in cui la sfera normativa, intesa essenzialmente quale modalità per influenzare il comportamento altrui, può assumere forme molto varie, comprendendo "comandi propriamente detti e divieti, ma anche ordini, ingiunzioni, intimazioni, precetti, istruzioni, prescrizioni in senso stretto (quelle del medico), raccomandazioni, consigli, pareri, suggerimenti, avvisi, ammonimenti, avvertimenti, esortazioni, proposte, richieste, inviti, preghiere, istanze, implorazioni, invocazioni, suppliche, e chi più ne ha più ne metta" (Bobbio, 1994: 191). Una prima distinzione fra questo coacervo di norme può essere formulata sulla base della loro differente forza obbligatoria 7. Vi sono in effetti norme che potremmo definire deboli, con scarso o nullo potere condizionante sul comportamento altrui, altre invece più forti, le quali obbligano ad un certo comportamento, pena l'irrogazione di una spiacevole conseguenza per il trasgressore, ovvero di una sanzione. Fra le norme più forti o più obbligatorie vi sono le cosiddette norme categoriche. Esse "impongono un comportamento come buono in se stesso e quindi da osservare incondizionatamente" (Bobbio, 1994: 191). Leggermente più deboli sono le norme ipotetiche, le quali "impongono un comportamento non come buono in se stesso ma come buono al raggiungimento di un certo fine, che come tale non è imposto ma lasciato alla libera scelta del destinatario" (ibidem). Fra le norme obbligatorie vi sono poi le norme prammatiche, "che stabiliscono un fine lasciando al destinatario la libertà di scegliere i mezzi più adatti per raggiungerlo", le direttive, che "impongono al destinatario l'obbligo non di osservarle ma di tenerle presenti, salvo a discostarsene solo in seguito a una motivata giustificazione" e le raccomandazioni emanate dagli organismi internazionali, le quali "non producono l'obbligo di compiere l'azione prevista, detto obbligo primario, ma possono produrre negli stati cui sono dirette obblighi secondari, come quello di prendere le misure necessarie all'esecuzione dell'obbligo primario o quello di indirizzare periodicamente all'autorità che l'ha emanata rapporti sulle misure prese per attuare l'obbligo primario" (ibidem: 192). Infine fra le norme più deboli, atte certo ad influenzare il comportamento altrui ma non munite di corrispondente potere obbligatorio, risp. sanzionatorio, si possono distinguere due grandi categorie: i consigli (rispettivamente pareri, avvertimenti, ammonimenti, suggerimenti, istruzioni per l'uso ecc.) e le preghiere (rispettivamente istanze, invocazioni, implorazioni, suppliche ecc.). Come scrive Bobbio (1994: 193) a questo proposito, "tanto i consigli quanto le preghiere si distinguono dai comandi, prototipi delle prescrizioni in senso forte, perché il modello di comportamento in essi previsto non è imposto e/o non è percepito dal destinatario come imposto, ma è proposto, e/o il destinatario lo percepisce come tale". Quanto poi il destinatario di tali consigli o preghiere sia libero di scegliere diversamente da quanto suggerito dal loro autore, è ovviamente un'altra questione, per altro assai delicata che chiama in causa fenomeni e strategie psicologiche come la suggestione o il ricatto morale, la cui forza disciplinante può risultare in definitiva superiore a quella di una coazione fisica diretta 8. È un aspetto quest'ultimo certamente da non sottovalutare, soprattutto nella società contemporanea se si considera la sempre maggiore diffusione di mezzi di comunicazione di massa come la televisione, tali da determinare, sempre con le parole di Bobbio, "un controllo sociale di tipo diverso da quello tradizionalmente rappresentato dal diritto, un controllo non di tipo coattivo ma persuasivo, la cui efficaca è affidata non in ultima istanza, come accade in ogni ordinamento giuridico, alla forza fisica, ma al condizionamento psicologico 9. Al limite si può ipotizzare un tipo di società in cui il condizionamento psicologico degli individui sia tanto esteso ed efficace da rendere superflua quella forma considerata generalmente più intensa di controllo che è appunto il controllo mediante l'uso di mezzi coattivi, cioè il diritto. Una società senza diritto non è soltanto la società libera ipotizzata da Marx, ma anche quella conformista ipotizzata da Orwell: il diritto è necessario dove gli uomini sono, come accade nelle società storiche, né tutti liberi né tutti conformisti, in una società dove gli uomini hanno bisogno di norme (e quindi non sono liberi) e non riescono sempre ad osservarle (e quindi non sono conformisti)" 10.

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L'intreccio che si può determinare fra i vari campi normativi, magari a qualificazione della stessa condotta specifica, è ben evidenziabile nell'esempio che segue, da cui vorrei trarre lo spunto per alcune riflessioni di fondo.

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§ 2. Le norme della delinquenza

In base al diritto penale svizzero, la sottrazione di sostanze stupefacenti altrui non costituisce reato ai sensi dell'art. 139 del Codice penale, a condizione che la vittima di tale sottrazione non sia ufficialmente autorizzata a produrre e commerciare tali sostanze giusta l'art. 4 della Legge federale sugli stupefacenti. Così ha deciso il Tribunale federale svizzero in una recente sentenza riguardante la sottrazione da parte di uno spacciatore di droga di una valigia contenente 880 grammi di cocaina e 4 kilogrammi di hascisc appartenente ad un altro spacciatore di droga (DTF 122 IV 179 ss.). Questo non ha precluso ovviamente all'autorità giudiziaria la possibilità di condannare il prevenuto per violazione alla Legge federale sugli stupefacenti, per altro sulla base di un quadro edittale di pena più grave di quello previsto per un furto semplice (cfr. cons. 3. e). La sottrazione tout court della valigia invece, condotta che apparentemente presenterebbe i tratti tipici di un reato patrimoniale, non è stata censurata penalmente 11. In questo senso l'ordinamento penale dello Stato non tutela il possesso di sostanze proibite 12. Secondo la giurisprudenza del Tribunale federale, che qui si appoggia anche a considerazioni tratte dalla civilistica, coloro che detengono cose proibite non possono vantare su di esse un diritto di proprietà giusta l'art. 641 CCS (Codice civile svizzero) 13 e quindi non beneficiano nemmeno di una tutela penale in tal senso (cfr. cons. 3. cc) 14. Addirittura, in casi come quello in esame, i detentori sono esposti alla confisca di tali sostanze, in quanto oggetto di reato giusta l'art. 58 del Codice penale. Essi esercitano dunque una signoria fattuale sulla cosa dai tratti molto precari. Perlomeno vis-à-vis dell'ordinamento statale. Diametralmente opposta invece la situazione in un ottica normativa più ampia. Vi sono difatti norme del milieu criminale, non meno cogenti e vincolanti di quelle statali 15. E con garanzie di efficacia anche più potenti. Norme di condotta atte a disciplinare i rapporti fra spacciatori, più in generale norme mafiose 16, cui è impossibile sottrarsi se non a prezzo di enormi rischi per la propria vita 17. In questo senso delle norme che vincolano i soggetti creando un vero e proprio ordinamento sommerso 18, di natura pragmatica e violenta, ma non privo di fondamenti etici 19, ad esempio di tipo contrattualistico 20, mutuati dall'ordinamento civile.

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Il caso qui in esame è in tal senso paradigmatico. Il concetto di furto, giuridicamente ed eticamente condannato dalla società civile, non viene qui applicato per delle comprensibili ragioni dogmatiche e giuspolitiche. Lo Stato non punisce il furto di droga perché non vuole immischiarsi nei rapporti fra spacciatori. Arretra di fronte ad un mondo di regole che comunque rigetta nel suo complesso. Questo non toglie che a tratti possa esistere una sostanziale analogia fra regole mafiose e regole civili, con analoghe ragioni di ordine e sicurezza. Insomma anche il mondo del crimine ha bisogno di garanzie che ne assicurino il funzionamento. Garanzie verso l'esterno (intimidazione, violenza, corruzione nei confronti degli organi dello Stato), ma anche verso l'interno (regole, patti, equilibri di potere).

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In casi gravi questo ordinamento sommerso può sovrapporsi addirittura a quello statale, di fatto sospendendolo. È quanto le inchieste di Tangentopoli in Italia hanno improvvisamente messo a nudo, senza per questo rappresentare un caso isolato nell'area occidentale. In contesti di questo genere, nei quali, come ha recentemente osservato Giovanna Pajetta in una recensione di due studi sociologici dedicati al tema, si è creata una vera e propria società parallela, potente e globalizzante, "dotata di un suo sistema di valori, perfettamente integrata, dove l'imprenditore, il politico, il manager, nella diversità dei ruoli e delle strategie rivolte all'accaparramento di utilità, benefici e privilegi, appaiono come plasmati uno sull'altro, ingranaggi a incastro che sincronicamente fanno girare l'intera organizzazione corrotta" 21. Sistema di valori e dunque sistema di norme, a tali valori ispirate, di natura eminentemente pragmatico-contrattualistica, e tremendamente funzionante. Al punto che, ritornando al caso da cui siamo partiti, può farci sorridere il fatto che lo Stato non punisca il furto di droga: il milieu criminale punisce eccome il furto di droga, con la violenza ma anche semplicemente con l'esclusione del reo dal mercato della droga, non in quanto violazione di una norma del codice penale ma come violazione dell'ordine criminale stesso. E per i consociati di quest'ordine si tratta in definitiva di regole di condotta ben più vincolanti e minacciose di quelle dello Stato.

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§ 3. Il contributo dell'antropologia giuridica

In una prospettiva antropologica il problema affrontato nel precedente paragrafo acquisisce una dimensione particolarmente interessante se lo si ricollega al moderno concetto di pluralismo giuridico 22. È noto infatti come proprio negli ultimi decenni l'antropologia giuridica abbia spostato il suo campo di osservazione dalle società primitive o tradizionali alle più complesse società contemporanee 23, arricchendo così notevolmente le nostre conoscenze in merito al funzionamento del diritto positivo. Si è in particolare verificata una prolifica commistione di metodo e di analisi fra sociologia del diritto (tradizionalmente orientata allo studio del diritto positivo dei Paesi occidentali) ed antropologia giuridica (interessata allo studio dei diritti informali ed extrastatuali) 24. Certamente l'approccio antropologico resta legato anche per quanto riguarda le società contemporanee allo studio di universi ristretti, istituzioni o gruppi sociali omogenei, dotati di sistemi normativi non formalizzati, quali la famiglia, una fabbrica, un'associazione sportiva, una minoranza etnica, un gruppo d'interesse. Lo stesso sguardo sul diritto positivo è comunque ricco di fruttuosi spunti teorici, nella misura in cui vi si applicano categorie antropologiche come il mito, il rito ed il tabù, originariamente sviluppate per descrivere il diritto delle società tradizionali 25: "Caratteristica dell'approccio antropologico è di andare oltre la previsione normativa o il trattamento delle dispute, analizzando comparativamente fenomeni più ampi e indefiniti, se pur strettamente connessi con il mondo del diritto, come la vendetta, lo scambio, l'onore" (Facchi, 1995: 117). Una speciale attenzione viene dedicata inoltre al conflitto, ritenuto un carattere costante di ogni ordinamento giuridico 26.

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Nell'orizzonte degli studi antropologici non va dimenticato un filone di ricerca particolarmente prolifico in Italia che è quello degli studi sul folklore giuridico 27. L'idea di pluralismo giuridico come è stata in particolare sviluppata da Santi Romano, Capograssi e Pigliaru, vi è naturalmente sottesa e costituisce una griglia teorica essenziale per cogliere la giuridicità presente nelle culture altre rispetto a quella egemonica dello Stato 28. Ed è forse proprio l'interesse per l'alterità una delle caratteristiche fondamentali dell'antropologia del diritto: alterità rispetto al diritto statale ma anche all'interno di quello stesso diritto. Come scrive Garapon a margine di uno studio sul rituale giudiziario "il progetto dell'antropologia del diritto non è [...] soltanto quello di cercare il diritto degli altri, vale a dire il fenomeno giuridico nelle società non occidentali, lontane nel tempo e nello spazio, ma anche di mettere in questione l'altro nel nostro diritto, vale a dire la parte occupata dal simbolico nella nostra vita giuridica" (1995: 289).

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Alla normatività giuridica si accosta così un'inconsueta normatività simbolica, un sistema di regole rituali per molti versi affine alla ritualità delle società tradizionali, prive di scrittura. Il diritto processuale ad esempio viene smontato in "un insieme di gesti, di forme e di comportamenti forzati la cui ripetizione si impone di per se stessa" (Garapon, 1995: 291). Invece di una serie di paragrafi e dogmi giuridici emerge un insieme di regole di tempo, di luogo, di linguaggio, di abbigliamento e di postura corporea che forniscono al processo il suo quadro simbolico (ibidem). Un quadro simbolico non certo ozioso e secondario se si considera il fatto che le più moderne teorie criminologiche definiscono la sanzione penale uno strumento volto esclusivamente a placare i desideri diffusi di vendetta ed a rassicurare i consociati mantenendo la fiducia nel sistema punitivo formale 29. E cos'è questa funzione, detta prevenzione generale-stabilizzatrice, se non un rituale, un insieme di norme simboliche, vestite certo di forma giuridica, ma che traggono la loro forza più nel coinvolgimento emozionale dei consociati che nella loro dogmatica razionalità?

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Ma vi è un'altra possibile prospettiva antropologica da cui guardare all'universo giuridico: quella del gioco, notoriamente inaugurata dall'Huizinga di Homo ludens. Come scrive Caillois (1967: 10) "il codice enuncia la regola del gioco sociale, la giurisprudenza la estende ai casi controversi, la procedura definisce la successione e la regolarità delle mosse. E vengono prese delle precauzioni affinché tutto si svolga con la chiarezza, la precisione, l'onestà e l'imparzialità di un gioco. I dibattimenti vengono svolti e la sentenza emessa in un'aula di tribunale, in base ad un rituale fisso, e indubbiamente ricordano rispettivamente l'aspetto consacrato al gioco (recinto, pista o arena, scacchiera), la rigida separazione che deve tagliarlo fuori dallo spazio circostante per tutta la durata della partita o dell'udienza, e infine il carattere inflessibile ed essenzialmente formale della regolamentazione in vigore". Più in generale "ogni gioco è un sistema di regole. Esse definiscono ciò che è o non è gioco, vale a dire il lecito e il vietato" (Caillois, 1967: 8). Le affinità con il mondo del diritto sono in effetti numerose, pur con delle importanti precisazioni. Così le regole del gioco "sono al tempo stesso arbitrarie, imperative e senza appello. Non possono essere violate con alcun pretesto, pena l'interruzione e la fine immediata del gioco. Nient'altro, infatti, sostiente la regola se non il desiderio di giocare, vale a dire la volontà di rispettarla. Bisogna giocare secondo le regole o non giocare affatto" (ibidem). Inutile ricordare a questo proposito che questa alternativa non è data al giocatore del diritto. Non si può scegliere di non giocare a questo gioco, per cui mancano almeno due delle caratteristiche principali dell'attività ludica, enucleate da Caillois (1967: 26): la libertà del giocatore e la separatezza del gioco rispetto alla vita reale. Non meno problematici sono del resto anche il necessario carattere improduttivo e fittizio del gioco.

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Nonostante ciò è indubbio che fra gioco e diritto vi siano importanti punti in comune che hanno portato Huizinga a formulare la nota e criticata tesi 30 per cui la cultura in tutte le sue varie forme avrebbe origine dal gioco ed in particolare dall'intreccio di tante regole del gioco, da quelle della prosodia a quelle della prospettiva, da quelle della messinscena teatrale a quelle della liturgia, da quelle della tattica militare a quelle della controversia filosofica; fino ovviamente ad arrivare a quelle del diritto. È una tesi senz'altro affascinante che ci permette di inserire il sistema delle norme giuridiche all'interno di un grande insieme di convenzioni che definiscono le caratteristiche di una singola civiltà.

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Resta comunque il quesito sull'opportunità del termine gioco per definire questo intero mondo di regole, al di là di un'eventuale prospettiva utopica come quella prospettata in Eros and Civilisation di Herbert Marcuse 31. Forse con Baudrillard (1979: 183 s.) è più adeguato evidenziare come "l'ordine istituito dal gioco, essendo convenzionale, non ha niente in comune con l'ordine necessario del mondo reale: non è né etico né psicologico, e la sua accettazione (quella della regola) non è ne rassegnazione né imposizione. Molto semplicemente, dunque, non c'è libertà del gioco [...]. Il gioco non è libertà, non obbedisce alla dialettica del libero arbitrio [...]. L'unico principio del gioco, che tuttavia non si pone mai come universale, è che la scelta della regola vi libera dalla legge". Baudrillard (ibidem: 181-190) applica qui una rigorosa distinzione fra regola e legge che va senz'altro richiamata alla luce del nostro discorso: "L'unico al di là della legge per noi concepibile è la trasgressione o l'eliminazione del divieto. Infatti, il modello della legge e del divieto governa il modello inverso di trasgressione e liberazione. Ma in realtà, quel che si oppone alla legge non è affatto l'assenza di legge, è la regola. La regola gioca su una concatenazione trascendente di segni necessari. L'una è ciclo e ricorrenza di procedure convenzionali, l'altra è una istanza fondata su una continuità irreversibile. Per l'una esistono soltanto obblighi, per l'altra costrizioni e divieti. La legge può e deve essere trasgredita, perché instaura una linea di spartizione. Di contro non ha alcun senso «trasgredire» una regola del gioco [...] si esce dal gioco, punto e basta. [...] La regola [...] essendo convenzionale, arbitraria e priva di verità nascoste, non conosce rimozione, né alcuna distinzione tra manifesto e latente: molto semplicemente, non ha senso, non conduce da nessuna parte; mentre la legge ha una finalità determinata. [...] La legge traccia un sistema di senso e di valore virtualmente universale. Punta a un riconoscimento oggettivo. Sulla base della trascendenza che la fonda, si costituisce come istanza di totalizzazione del reale: tutte le trasgressioni e le rivoluzioni aprono la strada all'universalizzazione della legge [...] La regola, invece, è immanente a un sistema ristretto, limitato, lo traccia senza trascenderlo e all'interno di questo sistema è immutabile. Non punta all'universale [...] proprio perché è arbitraria, infondata e priva di referenti, non ha bisogno di consenso, né d'una volontà o d'una verità di gruppo - esiste e basta, esiste solo già condivisa, mentre la legge fluttua al di sopra degli individui sparsi. [...] [Questi ultimi] sono anche più liberi nel gioco che in qualsiasi altro momento, poiché non devono interiorizzare la regola, ma le devono solo una fedeltà protocollare [...] liberi dalla necessità di scelta, di responsabilità, di senso!".

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Rispetto all'universo reale, con le sue leggi cui nessuno può sottrarsi visto che, come afferma ad esempio apoditticamente il CCS, "ogni persona gode dei diritti civili" (art. 11 cpv. 1), l'universo ludico rappresenta "un'occupazione separata, scrupolosamente isolata dal resto dell'esistenza, e svolta in generale entro precisi limiti di tempo e di luogo. [...] Lo spazio del gioco è un universo precostituito chiuso, protetto: uno spazio puro" (Caillois, 1967: 22 s.).

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Accettate queste puntualizzazioni non è tuttavia da sottovalutare il fatto che, al di là del discorso antropologico, vi sia un'altra disciplina scientifica che ha sviluppato dei modelli di ricostruzione del mondo politico, economico e sociale, proprio rifacendosi alla metafora del gioco. Mutatis mutandis esistono infatti delle moderne teorie matematiche, dette appunto teorie dei giochi 32, che vengono applicate nei più svariati campi del sapere allo scopo di spiegare ed eventualmente indirizzare il comportamento degli attori sociali in determinate situazioni di interazione collettiva. In particolare queste teorie hanno individuato certe strutture dell'azione collettiva, fatte di preferenze, aspettative, possibilità di azione, rapporto costi/benefici, che possono aiutare gli attori sociali a superare i conflitti facilitando la cooperazione. Si tratta anche qui di regole del gioco, anche se di ben diversa natura teorica, che tendono a spiegare ed a disciplinare i rapporti sociali fra attori ritenuti razionali 33. Rappresentano griglie interpretative che oltre a costituire un sistema di norme di comportamento, possono essere utilizzate per legittimare da un profilo razionale la necessità del diritto stesso: come scrive a questo proposito Carlos Santiago Nino (1994: 129) "i problemi di cooperazione possono superarsi mediante l'accettazione di norme, in quanto esse possono modificare le preferenze degli individui ed al tempo stesso assicurare le aspettative. L'esistenza stessa di una norma implica [...] la regolarità di condotte e comportamenti. Data questa regolarità, si attenuano i problemi dell'assicurare e del coordinamento. Gli individui che hanno come prima preferenza quella di cooperare con gli altri possono prevedere che anche gli altri coopereranno, ed oltretutto possono prevedere come lo faranno". In questa prospettiva il diritto assume la forma di una norma razionale di cooperazione fra gli individui volta ad ottimizzare l'azione collettiva, al prezzo di una reciproca rinuncia dei consociati ai propri interessi egoistici immediati.

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Quanto il diritto da solo sia tuttavia insufficiente a garantire il raggiungimento di queste dinamiche cooperative è ben evidenziato dallo stesso Nino con richiamo a considerazioni di sociologi come MacIver e filosofi del diritto come Ross. Questo mi permette di inaugurare un discorso che ho fin'ora tenuto in sospeso, ma che è ovviamente fondamentale ai fini della presente ricerca: il rapporto fra morale e diritto. Un discorso che è oggi più importante che mai, proprio considerando uno degli effetti più perversi di questa deriva ludica cui il diritto sembra sempre più esposto e ben evidenziata da Pietro Barcellona (1990: 50): "Il diritto paga [...] il suo prezzo. Perde ogni fondamento di giustizia e diventa «artificio», regola del gioco, spazio per la negoziazione degli interessi economici conflittuali; si deve «svuotare» di ogni contenuto per diventare pura tecnica formale e tuttavia dev'essere capace di abbracciare tutti i «contenuti» possibili, tutti i fatti e gli eventi. Il dover essere del giuridico deve dominare l'effettività degli accadimenti e, tuttavia, a causa della sua «vuotezza», ne viene continuamente rideterminato".

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§ 4. Diritto e morale. Diritto come morale applicata?

Il rapporto fra diritto e morale è senz'altro uno dei grandi temi della filosofia del diritto 34. Anzi è il problema preliminare di ogni filosofia del diritto 35 ed è strettamente legato al concetto di diritto naturale 36, di cui costitusce a tratti un'emanazione. A questo proposito va subito rilevato come la lunga tradizione che classifica la morale quale ordinamento normativo non è certo incontestata, visto che già in Schopenauer possiamo trovare solide argomentazioni contrarie 37. In effetti, come sottolinea Ross (1958: 59 s.), "se la parola «moralità» viene usata per designare norme di condotta che sono approvate dall'individuo nella propria coscienza, non è possibile parlare di «moralità» come di un fenomeno oggettivo, nello stesso modo in cui si può invece parlare di «diritto». L'uso corrente del linguaggio, in cui si parla di moralità come di un sistema oggettivo di norme analogo al diritto, deriva da una interpretazione metafisica della coscienza concepita come una rivelazione di principî di ragione, a priori e di per se stessi evidenti". In questo senso "il problema della relazione fra diritto e morale non si può impostare mediante un raffronto tra due sistemi analoghi di norme. Ci si deve proporre invece di mostrare la relazione del sistema istituzionale del diritto con gli atteggiamenti morali individuali prevalenti nella comunità giuridica. [...] gli atteggiamenti morali sono il risultato delle reazioni dell'individuo in situazioni concrete. Se in questo processo si sono sviluppate certe massime che sono state accettate come guide morali, esse non sono sentite come norme vincolanti, ma solo come generalizzazioni di esperienza, soggette a modifiche quando sia necessario, quando una situazione venga considerata nella sua piena concretezza. [...] L'esperienza morale ha sempre la sua più genuina manifestazione in una decisione concreta, adatta ad una e ad una sola situazione particolare" (Ross, 1958: 61 s.). Nel moderno dibattito scientifico non mancano tuttavia validi contributi ad una teoria oggettiva della morale 38, pur avulsi dallo sfondo metafisico censurato da Ross. Uno dei più famosi ed importanti è certamente quello di Jürgen Habermas, notoriamente fondato sull'etica del discorso, ma ve ne sono molti altri, con orientamenti teorici fra i più disparati. Tuttavia al di là della proponibilità o meno del concetto di morale quale ordinamento oggettivo, non esiste ordinamento giuridico moderno che non si ponga quesiti fondamentali sul proprio rapporto con la morale, rispettivamente che non cerchi di tracciare un discrimine con quel mondo.

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L'opera di Kant rappresenta a questo proposito un punto di riferimento obbligato per chiunque si occupi di questi problemi. In particolare nella Metafisica dei costumi (1797) si trova una compiuta formulazione della distinzione fra legalità e moralità, destinata a marcare in profondità tutti gli ordinamenti giuridici occidentali. La legalità vi viene definita quale "bloße Übereinstimmung der Handlung mit dem Gesetze, ohne Rücksicht auf die Triebfeder derselben"; la moralità invece "diejenige [...], in welcher die Idee der Pflicht aus dem Gesetze zugleich die Triebfeder der Handlung ist" 39.

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Sia per la moralità che per la legalità Kant parla esplicitamente di legislazione, richiamandosi quindi in entrambi i casi ad un ordinamento oggettivo, ed in particolare di leggi della libertà da contrapporre alle leggi della necessità cui soggiaciono i fenomeni naturali. Per distinguere questi due ambiti della condotta umana egli ha sviluppato diversi criteri. Il primo è puramente formale ed è quello richiamato nel passo appena citato: si agisce in maniera morale quando l'azione è compiuta esclusivamente per senso del dovere, escludendo qualsiasi altra motivazione esterna, quale un'inclinazione sensibile o un interesse materiale; si ha invece pura e semplice legalità quando l'azione non è compiuta per il dovere in quanto tale, ma ubbidendo ad una inclinazione o perseguendo un interesse diversi dal puro rispetto del dovere 40. Quello che distingue le due condotte non è quindi la norma cui si ubbidisce, ma le motivazioni che determinano al rispetto di tale norma. Come scrive Bobbio (1969: 90 s.) "la medesima azione è morale se è stata compiuta unicamente per il rispetto del dovere, è meramente legale se è stata compiuta per un'inclinazione o per un calcolo. Il mantenere le promesse è un dovere: ma io compio un'azione morale se mantengo la promessa non essendo determinato da altro impulso che dal dovere (devo perché devo); compio un'azione meramente giuridica o legale se mantengo la promessa perché ne traggo vantaggio".

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A questa distinzione si ricollega quella, altrettanto famosa, fra legislazione interna ed esterna: "l'azione legale è esterna per il fatto che la legislazione giuridica, che perciò è detta legislazione esterna, pretende unicamente un'adesione esteriore alle sue leggi, cioè un'adesione che è valida indipendentemente dalla purità dell'intenzione con la quale l'azione è compiuta, mentre la legislazione morale, che perciò è detta interna, pretende un'adesione intima alle sue leggi, un'adesione data con intenzione pura, cioè con la convinzione della bontà di quella legge" (Bobbio, 1969: 93). In questo Kant si richiama alla tradizione giusnaturalistica ed illuministica tedesca ed in particolare al pensiero di Christian Thomasius che, nei suoi Fundamenta Iuris Naturae et Gentium (1705) formulando i criteri di limitazione del potere statale, aveva sottolineato la necessità di limitare il campo d'azione del diritto al cosiddetto foro esterno, lasciando così libero l'individuo nell'ambito del suo foro interno 41.

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Negli ordinamenti giuridici moderni il problema è molto sentito laddove si affronta il problema dell'obiezione di coscienza, ad esempio in ambito militare 42, ma non solo. Un altro interessante esempio in questo senso è l'obiezione di coscienza dei medici attivi in un servizio pubblico, che si rifiutano per motivi etici di praticare interruzioni legali di gravidanza 43.

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Ritornando comunque a Kant ed ai criteri di distinzione del diritto dalla morale, va rilevato come essi non si limitino al campo formale, ma assumano anche una rilevanza sostanziale ben evidenziata da Bobbio (1969: 96 ss.) laddove illustra i concetti kantiani di libertà interna e libertà esterna. Alla luce di questa ulteriore differenziazione, l'azione morale diviene quella in cui l'individuo agisce avendo di fronte a sé solo la propria coscienza, mentre nell'azione giuridica egli agisce in rapporto agli altri, nel senso che gli altri, o lo Stato per essi, potranno chiamarlo a rendere conto della propria condotta: nell'azione morale si è responsabili solo di fronte a se stessi, in quella giuridica si è responsabili di fronte agli altri. E questa è una distinzione sostanziale, non solo formale. Come scrive Bobbio (1969: 100) "mentre nella morale gli altri esistono, quando esistono, solo come oggetto o come termine di riferimento della nostra azione, la quale ha il suo valore morale indipendentemente da una qualsiasi risposta dell'altro, nel diritto gli altri esistono come soggetti che esigono da me l'adempimento dell'azione. Il fatto che nell'azione giuridica io sia responsabile di fronte agli altri, istituisce un determinato rapporto tra me e gli altri, che si può chiamare intersoggettivo".

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Gli interpreti del pensiero kantiano hanno poi sviluppato altri due criteri di distinzione solo implicitamente abbozzati nella Metafisica dei costumi, ma senz'altro centrali nella definizione del suo pensiero giusfilosofico. Il primo deriva dalla distinzione fra autonomia ed eteronomia nell'ambito della volontà morale: come scrive Bobbio (1969: 105) "in quanto legalità, la volontà giuridica si differenzia dalla volontà morale per il fatto che può essere determinata da impulsi diversi da quello del rispetto della legge: il che è appunto la definizione stessa dell'eteronomia. Al diritto non importa che io compia l'azione prescritta, per soddisfare un mio interesse, mentre è risultato ben chiaro che anche l'azione più onesta, compiuta per interesse, non è di per ciò stesso più un'azione morale. In quanto libertà esterna, la volontà giuridica si differenzia da quella morale perché suscita negli altri titolari di egual libertà esterna il potere di costringermi e quindi è perfettamente compatibile [...] con la coazione: ma, ancora una volta, una volontà determinata dalla coazione è una volontà eteronoma, mentre è ben chiaro che anche l'azione più onesta, qualora sia compiuta per timor della pena, cessa di essere un'azione morale".

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Il secondo criterio deriva invece dalla distinzione kantiana fra imperativi categorici ed imperativi ipotetici e soprattutto dalla qualifica di "categorico" attribuita all'imperativo morale, in quanto distinto da qualsiasi altra forma di imperativo. Le leggi della condotta umana sono infatti definite come comandi, che come tali chiamano in causa l'uomo come essere libero, stabilendo fra fatto e conseguenza un rapporto di obbligazione, espresso con il verbo "dovere", e non di necessità come capita invece per le leggi naturali. In questo senso "der kategorische (unbedingte) Imperativ ist derjenige, welcher nicht etwa mittelbar durch die Vorstellung eines Zwecks, der durch die Handlung erreicht werden könne, sondern der sie durch die bloße Vorstellung dieser Handlung selbst (ihrer Form), also unmittelbar als objektiv-notwendig denkt und notwendig macht; dergleichen Imperativen keine praktische Lehre als allein die, welche Verbindlichkeit vorschreibt (die der Sitten), zum Beispiele aufstellen kann. Alle anderen Imperativen sind technisch und insgesamt bedingt. Der Grund der Möglichkeit kategorischer Imperativen liegt aber darin: daß sie sich auf keine andere Bestimmung der Willkür (wodurch ihr eine Absicht unterlegt werden kann) als lediglich auf die Freiheit derselben beziehen" 44.

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Il comando categorico è dunque quello che prescrive un'azione come buona in se stessa, esprimendo un giudizio categorico: "non devi rubare". Il comando ipotetico prescrive invece la medesima azione non come fine a se stessa ma in vista del raggiungimento di un certo fine esterno, e dunque è espresso in forma di giudizio ipotetico: "se vuoi evitare di finire in prigione, non devi rubare". Kant distingue poi ulteriormente gli imperativi ipotetici fra tecnici, che prescrivono regole di abilità ("se vuoi imparare l'inglese devi esercitarti molto") e prammatici, che esprimono regole di prudenza riferibili al benessere generale ("se vuoi essere felice, e dunque poiché vuoi essere felice, devi evitare ogni eccesso") 45. Questo ci permette di dedurre un ulteriore criterio di distinzione fra morale e diritto in quanto se quest'ultimo, come abbiamo visto, coincide con la legalità e con la libertà esterna ed è espressione di una volontà eteronoma, gli imperativi giuridici non potranno che essere formulati ipoteticamente 46 e saranno del tipo: "se non vuoi finire in prigione, non rubare" oppure "poiché il mantenimento dei patti ti è di vantaggio, devi rispettarli".

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La distinzione kantiana qui sinteticamente illustrata, pur rappresentando il fondamento teorico sul quale sono state costruite molte codificazioni giusprivatistiche ancor'oggi in vigore e pur avendo influenzato generazioni di giuspositivisti da Kelsen fino a Ross e ad Hart, è oggetto di molte critiche da parte della filosofia del diritto contemporanea. In modo particolare viene fatto notare, ad esempio da parte di pensatori come Carlos Santiago Nino, come "qualunque concetto di diritto meramente descrittivo che mi sbarri dunque l'accesso all'àmbito normativo (se non in maniera surrettizia o decisionistica) mi priva della possibilità di comprendere veramente ciò che fanno gli attori in un contesto specifico d'azione e poi soprattutto di fornire delle ragioni operative per l'azione" (così Massimo La Torre in Nino, 1994: XI). La distinzione kantiana fra diritto e morale viene per altro travolta, in questa più moderna prospettiva, non soltanto sul piano giustificatorio del diritto (così Nino, 1994: 37-70), ma addirittura nel campo dell'interpretazione giuridica, attività che tradizionalmente ed orgogliosamente i giuristi sono soliti difendere da qualsiasi forma di ingerenza esterna. A conclusione del suo ben strutturato e convincente ragionamento, Nino arriva infatti ad affermare che "il diritto non può essere interpretato se non si ricorre, in momenti cruciali di tale cómpito interpretativo, a considerazioni di indole morale" (Nino, 1994: 106). Senza il ricorso a norme morali le norme giuridiche non sono dunque né vincolanti né interpretabili. Nino fa così sua la nota tesi di Robert Alexy (1978: 34) secondo cui il ragionamento giuridico si configura semplicemente come un caso speciale di ragionamento pratico, segnatamente di ragionamento morale 47. In questa prospettiva il diritto diventa "morale applicata" per cui il discrimine fra questi due fenomeni assume una natura ben diversa da quello formulato da Kant. Una differenza fra diritto e morale c'è sempre, è ovvio, altrimenti il diritto stesso sarebbe privo di senso: in effetti "se la norma giuridica o il diritto devono essere derivati da princìpi morali validi per giustificare un'azione o una decisione, perché non cercare la giustificazione di una tale azione o decisione in quei princìpi morali?" 48. La differenza è però più sfumata e certamente meno netta che in una prospettiva positivista ed è essenzialmente basata sulla connessione che Nino stabilisce fra il diritto e la politica intesa come pratica collettiva: "le azioni e decisioni giuridiche non sono azioni e decisioni individuali ed isolate [come sarebbero invece delle pure e semplici azioni e decisioni morali, R.G.], ma contributi ad un'azione o pratica collettiva" (Nino, 1994: 132); come tali "devono, necessariamente, tener conto delle azioni e decisioni di altri, tanto quelle che si realizzano nel passato quanto quelle che si eseguono nel presente o che si realizzeranno nel futuro" (Nino, 1994: 133). Il nesso con la morale sarà dunque di altro tipo, e certamente molto più forte che in Kant, giacché i princìpi autonomi di moralità sociale costituiscono le premesse fondamentali di tutto il ragionamento giustificatorio del diritto, anche se non si applicano direttamente alle azioni e decisioni individuali bensì alla pratica collettiva. "Se quest'ultima risulta giustificata da quei princìpi autonomi, passiamo alla seconda tappa del ragionamento giustificatorio che presenta una struttura scaglionata, nella quale l'azione e decisione che si prende deve giustificarsi tanto alla luce della conservazione della pratica quanto prendendo in considerazione la possibilità di migliorarla avvicinandola ai princìpi di giustizia. Questo richiede una razionalità del tipo della «seconda miglior opzione», visto che a volte implica l'opzione per soluzioni che non sono ottime in accordo ai princìpi autonomi, ma che sono le uniche efficaci tra quelle che si approssimano a tali princìpi" (Nino, 1994: 132 s.).

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Il diritto assume così una posizione mediana fra tensioni ideali di tipo morale e resistenze che la politica, intesa come insieme di pratiche collettive cooperative, oppone a queste stesse tensioni: "di modo che tutto lo sviluppo del diritto, come intento di promuovere pratiche collettive cooperative, include, perlomeno, la pretesa ch'esso sia socialmente considerato come moralmente legittimo" (Nino, 1994: 133 s.).

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Ferme restando queste considerazioni di carattere generale può senz'altro essere interessante al fine del nostro discorso abbandonare momentaneamente il piano più propriamente filosofico e scendere ad un livello più concreto e sociologico. Vorrei così esemplificare il rapporto fra diritto e morale illustrando uno dei suoi aspetti più emblematici, che coinvolgono immediatamente la pratica giuridica oltre che la sociologia del diritto, ovvero quello delle cosiddette obbligazioni naturali. Come scrive a questo proposito Lévy-Bruhl (19816: 37), appunto un sociologo, "morale et droit sont trop proches l'un de l'autre pour qu'il n'existe pas une zone intermédiaire. C'est ainsi que le droit connaît des obligations incomplètes, dites obligations «naturelles», qui sont munies de demisanctions, en ce sens que le créancier ne peut s'adresser à la justice pour en obténir l'exécution, mais que pourtant le débiteur qui l'a remplie ne peut, de son côté, prétendre qu'il a payé l'indû et en exiger le remboursement". Si tratta di una situazione che ad esempio nel diritto svizzero è disciplinata all'art. 63 cpv. 2 del Codice delle Obbligazioni (CO), il quale recita: "non si può ripetere ciò che fu dato in pagamento d'un debito prescritto o per adempiere ad un dovere morale". In questi casi il diritto ammette una parziale obbligatorietà di questi doveri concedendo se non un'azione al meno un'eccezione a tutela di chi ha ricevuto una prestazione di questa natura 49. Analogamente l'art. 66 CO prevede che non è data la possibilità di ripetizione per indebito arricchimento a colui che ha prestato intenzionalmente per uno scopo contrario alla legge od ai buoni costumi. Se da un lato l'ordinamento giuridico non tutela le obbligazioni a contenuto illegale oppure immorale (cfr. art. 20 CO), riconosce tuttavia l'esistenza in questi casi di un dovere morale di correttezza rispettivamente la necessità di una minima sicurezza dei traffici che va al di là del contesto globale, illecito o contrario ai buoni costumi, in cui il negozio in questione si è perfezionato. Questo ci riporta in parte alle situazioni che abbiamo affrontato in un precedente paragrafo, parlando delle norme della delinquenza. Attraverso queste forme di indiretto riconoscimento delle obbligazioni naturali 50 e dei doveri morali 51 l'ordinamento giuridico ammette implicitamente la propria difficoltà a tracciare un discrimine chiaro ed inequivocabile fra diritto e morale 52, confermando così l'opportunità di teorie giusfilosofiche come quelle di Nino o di Alexy, che mettono in dubbio la legittimità di modelli di separazione troppo netta fra questi ambiti normativi. È sì vero che queste finestre attraverso le quali la moralità si insinua nel diritto sono pur sempre "positivizzate", nel senso che sono poste in maniera puntuale e precisa dal legislatore, senza la possibilità di estenderne a dismisura il campo di applicazione; e in questo senso è comprensibile che la dottrina civilistica ci tenga a specificare che si tratta di eccezioni sporadiche, che non toccano la sostanza del problema, ovvero la distinzione programmatica fra diritto e morale 53. Fatto sta che queste obbligazioni imperfette ci sono, sono ammesse dal legislatore, trovano un'applicazione giurisprudenziale ed una teorizzazione dottrinale, per cui il problema si pone: si possono certo neutralizzare con un'interpretazione rigorosa, ma non si può eliminare la loro problematicità, o meglio il segnale giusfilosofico che esse mandano. E con buona pace dei positivisti è un messaggio che tende ad avvicinare la normatività morale a quella giuridica, più che ad allontanarle, non foss'altro per il fatto che, nella applicazione concreta di norme che si richiamano alla morale, la scienza giuridica deve pur sempre definire a quali condizioni un obbligo si può definire morale o meno, e per far questo deve tenere presente o per lo meno ipotizzare la morale sociale come ordinamento oggettivo 54.

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Nel diritto romano, cui dobbiamo per altro una prima formulazione del concetto di "naturales obligationes" riferito ai patti conclusi da schiavi ed in genere dai figli di famiglia 55, era prevista un'interessante istituzione che, ponendosi anch'essa al confine fra questi due ordinamenti normativi, ci permette di meglio esemplificare questo ordine di problemi: la carica del censore 56. Questi era preposto al cosiddetto regimen morum ed in particolare vigilava affinché il pater familias non abusasse del potere pressoché assoluto che il diritto in quanto tale gli garantiva 57. Uno degli istituti che più si prestava ad eventuali abusi era quello del diritto di vita e morte vantato sui figli (ius vitae et necis) 58. Ferma restando la distinzione concettuale fra ius e mores, formalizzata nella precisa distinzione fra iurisdictio del pretore e regimen morum del censore, i romani non consideravano tollerabile un uso indiscriminato dei poteri del padre di famiglia 59, per cui già in epoca repubblicana accollarono a quest'ultimo dei precisi vincoli di natura morale con cui il teorico potere assoluto all'interno della famiglia venne sostanzialmente limitato. Per violazione dei mores maiorum, il padre di famiglia che abusava dei suoi diritti poteva subire tutta una serie di sanzioni, inflitte dal censore: dalla pubblica riprovazione (nota censoria) alla privazione di privilegi sociali e politici, nonché a misure fiscali. La natura stessa delle sanzioni ci rinvia ad un settore certamente affine a quello giuridico: sono sanzioni che emanano da un'autorità pubblica, pur con una forte componente di riprovazione sociale, e la cui comminazione non a caso, con il venir meno della carica censoria, verrà assunta direttamente dall'imperatore. Proprio l'assunzione da parte dell'imperatore delle funzioni censorie contribuirà alla trasformazione di queste norme morali in norme giuridiche tout court 60. In un certo senso siamo così messi a confronto con una situazione speculare rispetto alle obbligazioni naturali: se nel primo caso la labilità del confine fra normatività giuridica e normatività morale si manifesta attraverso la limitata positivizzazione di certi obblighi morali da parte dell'ordinamento giuridico, nel secondo ci troviamo di fronte ad un obbligo classificato dai romani come morale e come tale tenuto a lungo lontano da quello che secondo i nostri canoni della giuridicità avrebbe dovuto essere il suo alveo più naturale, quello del diritto puro e semplice. In entrambi i casi si tratta di differenziazioni formali dettate da ben precise ragioni storiche e da due concetti difficilmente assimilabili della distinzione fra diritto e morale.

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§ 5. Diritto e costume. L'apporto della sociologia del diritto

Se il rapporto fra diritto e morale rappresenta uno dei temi classici della filosofia del diritto, quello fra diritto e costume è senz'altro uno dei problemi centrali della sociologia del diritto 61. Non che gli studiosi di filosofia del diritto non si applichino a questo tema 62, ma nell'affrontare questa distinzione sono molto debitori della metodologia sociologica. La stessa distinzione fra moralità e costume non è così netta e precisa da permettere una trattazione separata di questi argomenti. Così per Ross (1958: 346, nota 2) "alla distinzione fra norme convenzionali [di costume] e norme morali corrisponde una differenza nella reazione sociale alla violazione della norma. La violazione di una norma tipicamente convenzionale produce stupore, derisione e riserbo. Una persona che va in giro con un tipo sbagliato di abiti è ridicola e non appartiene alla buona società. La violazione di una norma tipicamente morale è accompagnata da proteste di disapprovazione che possono raggiungere la collera, l'indignazione e l'orrore". È certamente una distinzione molto pragmatica ed empirica, ma non priva di interesse e di utilità, che ci introduce direttamente in un ordine teorico di tipo sociologico, come dimostra l'accento posto sulla reazione sociale di fronte alla violazione della norma 63. In una prospettiva sociologica il diritto è definito nel suo legame con i rapporti sociali di un determinato gruppo in una determinata epoca: secondo l'elementare definizione di Henri Lévy-Bruhl (19816: 21 s.) esso rappresenta "l'ensemble des règles obligatoires déterminant les rapports sociaux imposés à tout moment par le groupe auquel on appartient". Tre sono le caratteristiche principali che emergono da questa formulazione: 1) si tratta di un insieme di regole obbligatorie, 2) imposte da parte del gruppo sociale e 3) in continuo mutamento 64.

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Così se ancora per Max Weber 65 il diritto si differenziava dal costume in quanto doveva essere "äußerlich garantiert [...] durch die Chance physischen und psychischen Zwangs durch ein auf Erzwingung der Innehaltung oder Ahndung der Verletzung gerichtetes Handeln eines eigens darauf eingestellten Stabes von Menschen" (19805: 17), mentre il secondo rappresentava il caso "eines typisch dal gleichmäßigen Verhaltens [...], welches lediglich durch seine 'Gewohnheit' und unreflektierte 'Nachahmung' in den überkommenen Geleisen gehalten wird" (19805: 63); in una più moderna prospettiva sociologica si pone l'accento più sulle differenti forme di interazione sociale che sulla sanzione in quanto reazione fisica del gruppo contro il trasgressore della norma. Da un lato il discrimine fra diritto e costume viene così posto in relazione all'esistenza o meno di misure organizzative che assicurino la validità delle norme in questione 66. Dall'altro si concentra l'attenzione sulla particolare forma di interazione sociale che il diritto crea, mediante tipici processi di formalizzazione e di generalizzazione volti a mettere in secondo piano la concretezza delle relazioni interpersonali. Così ad esempio se in una relazione di amicizia oppure nella vita famigliare, a sostegno di una propria opinione o di un proprio desiderio, si ricorre ad argomenti di carattere giuridico, si è già giunti al limite estremo della semplice relazione interpersonale fondata sul costume, sulla morale o semplicemente sulla reciproca fiducia. Astraendo il più possibile dal retroterra umano di ogni singola relazione interpersonale, il diritto assume una forte componente anticomunitaria 67, nel senso che fornisce alle persone una griglia formale di risoluzione dei conflitti che non tiene conto del vissuto specifico di ogni singola comunità, fatto come è di esperienze, desideri, aspettative, speranze, gioie, sofferenze ecc. Si tratta di una constatazione che qualsiasi avvocato può fare nella sua pratica quotidiana: basti pensare a come vengono affrontati ed esacerbati da un profilo giuridico i conflitti famigliari. Già nell'Ottocento il grande romanista svizzero J.J. Bachofen aveva apoditticamente denunciato il problema laddove osservava come "Recht und Gesetz trennt die Menschen, während die Liebe sie untereinander verbindet" 68. Sovente, quando si deve arrivare al diritto per risolvere un conflitto, qualcosa si è precedentemente inceppato nel legame interpersonale, nei normali meccanismi di interazione sociale, fondati appunto sul costume, sull'amicizia, sull'amore, sulla buona educazione o semplicemente sul buon senso. Ed è qui che in una moderna prospettiva sociologica si inserisce il descrimine metodologicamente più rigoroso fra il diritto e gli altri ordinamenti normativi 69.

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§ 6. Altri esempi più in breve: politica, economia, religione, magia

A mo' di conclusione vorrei esporre alcuni ulteriori esempi di sistemi normativi che presentano interessanti fenomeni di interazione con il mondo giuridico. Si tratta di fenomeni certo molto diversi, ma con cui storicamente la scienza giuridica ha spesso dovuto fare i conti, definendo competenze, tracciando confini teorici e metodologici, ed in genere risolvendo problemi simili, se non addirittura identici. Ed è proprio muovendo da alcuni di questi problemi concreti che vorrei illustrare questi fenomeni, evitando così eccessive teorizzazioni che ci condurrebbero troppo lontano dal mondo giuridico in quanto tale.

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Cominciamo con la politica 70. Che vi sia un legame fra diritto e politica dovrebbe essere ovvio. Come scrive a questo proposito Nino (1994: 123) "il diritto mantiene una connessione diretta con la politica, giacché qualsiasi azione o decisione giuridicamente rilevante che si prende deve compiersi ponderando strategicamente le azioni e decisioni degli altri, compiute nel passato, che si realizzano nel presente, o che si daranno in futuro. Il diritto è un'impresa essenzialmente cooperativa - anche in un regime giuridico autoritario - visto che non può ottenere effetti giuridici senza la collaborazione degli altri. Pertanto, ogni azione giuridica è un'azione politica nel senso che deve tener conto delle azioni, reazioni, comportamenti, aspettative di altri, nella misura in cui esse hanno il potere di determinare nuove azioni, reazioni, comportamenti ed aspettative (soprattutto in quanto esse incidano sulla gestione dell'apparato coattivo)". È altresì vero che la politica ha le sue regole, ben distinte dalle regole vigenti in altri campi come la morale, la religione, l'economia, il diritto. Si tratta di un'acquisizione che soprattutto grazie alla fortuna del pensiero del Machiavelli ha marcato indelebilmente il nostro pensare la politica ed in modo particolare l'agire politico dello Stato moderno 71. Scrive in merito il Meinecke nel suo L'idea della ragione di Stato nella storia moderna (1924): "[Machiavelli] scoprì la «necessità», la forza coercitiva dell'interesse di potenza nell'azione politica, che infrange persino la legge morale" (cit. in Cutinelli-Rendina, 1999: 156). Non è questa la sede per approfondire il problema del legame esistente fra la visione politica del Machiavelli ed un'eventuale etica civile più ampia che potrebbe legittimare moralmente il suo pensiero 72; quello che mi preme piuttosto rilevare è l'esistenza di norme politiche che possono scaturire da patti, piattaforme programmatiche, accordi partitici, consuetudini ecc., munite di forza vincolante spesso pari a quelle giuridiche, di cui spesso sono addirittura scaturigine, ma da cui vanno metodologicamente ben distinte.

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In Isvizzera uno degli esempi più eclatanti di queste norme politiche non-giuridiche, ma non meno radicate nel tessuto istituzionale, è offerto dalla cosiddetta "formula magica", un accordo partitico per la spartizione dei seggi in Consiglio federale risalente all'oramai lontano 1959, che ha garantito decenni di stabilità governativa alla Confederazione elvetica 73. Già di per sé la sua longevità ed il suo vigore, pur con tutte le contestazioni e gli scossoni cui è stata sottoposta ma che fanno parte della normale conflittualità politica, sono segnale di una normatività molto forte, quasi giuridica: molte leggi varate dal parlamento non possono vantare un'esistenza così lunga ed in definitiva un'efficacia simile. Per essere diritto consuetudinario costituzionale le manca certamente l'opinio iuris seu necessitatis, ma per quanto riguarda il requisito della diuturnità (longa consuetudo) non ha certamente nulla da invidiare a molte norme consuetudinarie vigenti. Si tratta dunque di una norma importantissima, radicata nella storia costituzionale svizzera e fondamentale per comprendere il funzionamento del sistema politico elvetico. Una norma non giuridica, non giustiziabile, ma valida, efficace, diuturna, rovesciabile solo con una maggioranza in parlamento, come appunto le norme giuridiche tout court. Per farne una norma giuridica le manca in fondo solo un piccolo dettaglio formale, comunque decisivo ed incolmabile per la nostra concezione del diritto: l'investitura costituzionale o il riconoscimento in quanto diritto consuetudinario. Considerata la natura di questa norma si tratta di due requisiti che non potranno mai realizzarsi, pena una sclerotizzazione inopportuna della rappresentanza partitica in governo. La "formula magica" rimane così il risultato di un patto politico fra partiti, senza mai assumere i tratti di un contratto giuridico da cui non si può unilateralmente derogare, e questo, secondo la mai inficiata teoria del Machiavelli, caratterizza in maniera indelebile i patti politici: "Quanto sia laudabile in uno principe il mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende; nondimanco si vede per esperienza ne' nostri tempi quelli principi avere fatto gran cose, che della fede hanno tenuto poco conto e che hanno saputo con l'astuzia aggirare e' cervelli delli uomini: e alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in su la lealtà [...]. Non può pertanto uno signore prudente, né debbe, osservare la fede quando tale osservanzia gli torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere" (Il Principe, cap. XVIII).

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Se l'esistenza di una componente normativa nel mondo della politica è abbastanza evidente e si manifesta nella naturale contiguità fra diritto e politica qui evidenziata con l'esempio della "formula magica", la stessa cosa non si può certo dire per l'economia 74, la quale ha sì le sue proprie leggi, ma si tratta di leggi apparentemente più descrittive che normative, come tali più vicine a quelle della natura o della storiografia, ammesso che ce ne siano 75, che a quelle del diritto. A questo si aggiunga il pregiudizio ispirato dalla filosofia del diritto novecentesca di tendenza neokantiana che tende a ascrivere questi due fenomeni a due orizzonti teoretici contrapposti, ovvero quello dello spirito per il diritto e quello della materia per l'economia. Si tratta comunque di un dualismo da cui la più recente metodologia filosofica tende a prendere le distanze, seguendo grossomodo tre direttive di ricerca.

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La prima inquadra il diritto e l'economia in un rapporto di complementarietà, facendo suo un approccio già presente in Hegel ed in particolare nella terza parte delle Grundlinien der Philosophie des Rechts (1820) dove al concetto di società civile, in quanto espressione della Sittlichkeit accanto alla famiglia, vengono sussunte sia l'economia che l'amministrazione della giustizia 76. Nell'ambito della società civile il compito del diritto diventa quello di assicurare un equilibrio dei bisogni economici individuali, mantenendo unita la società stessa, la quale sarebbe altrimenti esposta alla forza disgregante degli interessi particolari. Come scrive Bobbio (19812: 42), in Hegel l'apparire del diritto, inteso qui essenzialmente come diritto privato, "è connesso a un atto cosciente come il riconoscimento, il diritto è un posterius rispetto al movimento immediato non riflesso che nasce dal bisogno, e di cui si occupa l'economia. Inoltre il diritto rappresenta nello sviluppo ideale della società soltanto un momento formale, il cui ufficio è puramente e semplicemente la stabilizzazione dei rapporti economici". Hegel concepisce questo fenomeno in termini critici, in quanto a questo tipo di società fondata esclusivamente su interessi egoistici manca un elemento morale che leghi il singolo alla comunità e che si può realizzare solo con la creazione dello Stato 77. Karl Marx proseguirà notoriamente su questa linea teorica denunciando, all'inizio del terzo capitolo dei Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie (1857/58), la libertà e l'uguaglianza formali del diritto borghese come strumenti che non fanno altro che cementare la disuguaglianza economica esistente nel sistema capitalistico 78. In questa prospettiva, oggi più che mai attuale di fronte all'ampia deregolamentazione cui molti settori della vita economica e sociale vengono sempre maggiormente esposti 79, le norme giuridiche nella loro forma astratta e generale non sono altro che il travestimento assunto dalle uniche norme vigenti in una società capitalistica: quelle del profitto. Non solo diritto ed economia sono ordinamenti normativi complementari, ma addirittura le norme (nel senso generale di modalità per influenzare il comportamento altrui illustrato nella nostra introduzione) dell'economia capitalistica, che sono ovviamente le norme del più forte 80, svuotano completamente di sostanza le norme giuridiche. Nel diritto svizzero vi è un esempio paradigmatico di questo fenomeno ed è quello della cosiddetta rendita fondiaria (Gült), lo strumento pignoratizio che Eugen Huber aveva appositamente pensato per il mondo rurale, ma che non ha mai avuto applicazione pratica in quanto rifiutato in tronco dal mondo economico-finanziario 81.

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Da questa visione del rapporto fra diritto ed economia si distingue nettamente la seconda delle linee di ricerca cui abbiamo accennato sopra, la quale si caratterizza per l'attenzione posta al diritto in quanto espressione di una società organizzata come sistema cibernetico e costituita di sottosistemi autoreferenziali quali appunto il diritto, la morale, la politica, l'economia ecc. Così secondo Luhmann 82, senz'altro il più famoso rappresentante della concezione sistemica del diritto, qualsiasi tentativo di interferire sulle leggi del sottosistema economico mediante interventi politici, giuridici o provenienti da altri sottosistemi autorefenziali, sono da rigettare in quanto "unzivilisierte Versuche, gegen die Entwicklungslage der Gesellschaft die Überordnung der Politik über die Wirtschaft wiederherzustellen" (cit. in Seelmann, 20012: 89). Anche per Teubner (1989), che ha sviluppato ulteriormente il modello sistemico, concependo il diritto come sistema autopoietico, nel senso che esso si produce e si rigenera attraverso un continuo riferimento a se stesso, i pur esistenti ed ammessi influssi esterni provenienti dal mondo della politica e dell'economia, vengono relativizzati in quanto essi sarebbero recepiti dal sottosistema giuridico solo mediante una rielaborazione conforme alle regole di questo stesso sottosistema. Avviene così una neutralizzazione degli influssi esterni nella misura in cui gli elementi recepibili vengono trasformati in fattori di stabilizzazione e mantenimento del sistema stesso, mentre quelli potenzialmente destabilizzanti vengono rifiutati 83.

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L'ultima direzione di ricerca cui vorrei qui accennare è quella sorta recentemente negli Stati Uniti e denominata "Analisi economica del diritto". Il nesso fra leggi economiche e norme giuridiche è qui stretto a tal punto da postularsi apertamente l'adozione anche nel campo del diritto di valutazioni strettamente economiche, segnatamente del calcolo costo/benefici. Le norme giuridiche dovrebbero in questo senso applicarsi nella maniera economicamente più efficiente e con il minore spreco di risorse 84.

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Al di là delle profonde differenze esistenti fra le tre correnti di ricerca qui brevemente descritte è indubbio, ed è quello che più conta per il presente discorso, che in tutte e tre è riscontrabile da un lato una più o meno spiccata concezione normativa del mondo economico dall'altra un'approfondita tematizzazione del rapporto fra diritto ed economia. La tradizione neokantiana della contrapposizione di questi due fenomeni, secondo il dualismo spirito/ materia, è in questo senso ampiamente superata e fa posto ad un confronto teorico serrato, di cui non vanno comunque taciuti i fortissimi elementi ideologici, che rendono in definitiva difficile una vera comunicazione scientifica fra queste differenti correnti.

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Gli ultimi due esempi di ordinamenti normativi che vorrei illustrare sono in un certo senso molto simili, nella misura in cui chiamano in causa entrambi il soprannaturale 85. Senza entrare nella trattazione specifica della natura normativa della religione e della magia 86, vorrei mostrare sulla base di due situazioni piuttosto singolari, come la religione e la magia abbiano potuto e possano ancora oggi interagire col mondo del diritto, determinando una serie di interferenze normative molto interessanti e suggestive, che ci aiutano non da ultimo a conoscere meglio il funzionamento del diritto stesso.

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Il primo caso che vorrei affrontare è tratto dalla scienza giuridica medievale e si pone esattamente al crocevia fra diritto, morale e teologia. Nella scuola dei glossatori era emersa una leggendaria disputa fra Bulgaro e Martino 87 sull'interpretazione da dare ad un passo del Codice di Giustiniano, contenente un rescritto di Alessandro Severo in merito alla validità di un contratto rafforzato da giuramento ma di per sé nullo per vizio giuridico. In modo particolare in Cod. 2, 27 [28], 1 si affrontava il caso di un soldato minorenne che aveva venduto un fondo rafforzando il negozio, di per sé nullo per mancanza di capacità di agire, con un solenne giuramento. L'imperatore aveva seccamente negato la possibilità di sciogliere il contratto in questione poiché accettando tale richiesta egli si sarebbe sentito complice di uno spergiuro: "... neque perfidiae neque periurii me auctorem futurum sperare tibi debuisti". L'interpretazione di questo passo ed in particolare la sua eventuale generalizzazione furono oggetto di una disputa nel medioevo, nella misura in cui Martino riteneva che in questo genere di costellazioni il negozio fosse da ritenere valido, mentre Bulgaro, la cui opinione risulterà poi dominante, grazie al susseguente sostegno di Jacques de Révigny e di Cino da Pistoia, lo considerava nullo. Al di là degli importanti risvolti dogmatici del caso, quello che qui è più opportuno sottolineare è lo sfondo socioculturale in cui la disputa si inserisce. Se infatti un contratto nullo resta tale anche se rafforzato da solenne giuramento, con la conseguenza che il diritto civile, rivendicando la propria autonomia scientifica rispetto alla teologia, tutela la posizione di uno spergiuro, ci si può domandare quanto questo abbia potuto influenzare in definitiva la condotta quotidiana dell'uomo medievale. Quanto insomma sia stata efficace nel medioevo questa interpretazione giuridica a fronte di una norma religiosa inequivocabile che vietava, e per altro ancora oggi vieta 88, di spergiurare. Lo spergiuro si poteva certo liberare da un contratto incautamente concluso, ma comportandosi in tal modo commetteva un peccato 89 più o meno grave, che lo poneva al di fuori di un ordinamento non meno cogente di quello giuridico e con rischi ben più gravi visto che coinvolgevano, oltre alla probabile riprovazione sociale, la salvezza dell'anima. La rilevanza sociale di questa norma giuridica è dunque afferrabile solo se si inquadra il discorso giuridico nel suo rapporto con il mondo religioso, cosa di cui erano ben consci gli stessi giuristi medievali laddove scrivevano: "[...] nota [...] quod iuramentum super contractu nullo et prohibito, ratione favoris personae iurantis, est obligatorium et servandum, tanquam quod potest servari sine interitu salutis aeternae, et nota quod non validat contractum [...]" 90.

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Riguarda la salvezza dell'anima anche il secondo esempio che mi sono riproposto di illustrare cercando questa volta di tematizzare gli snodi che possono crearsi fra diritto canonico, religione e magia. Vorrei farlo alla luce di una secolare pratica ancor oggi presente nella Chiesa cattolica, anche se con minore frequenza che nel passato, ovvero l'esorcismo. Esso rappresenta attualmente un insieme di pratiche messe in opera da presbiteri appositamente autorizzati secondo le regole del diritto canonico 91, con cui si usa scacciare i demoni dalla persone ritenute da questi possedute. Fu praticato già nell'antichità da stregoni e taumaturghi e nella religione cristiana trae le proprie origini dalla missione di Gesù Cristo che nel potere di esorcizzare vide uno dei segni della propria missione divina (Mt 12, 28) 92. Nello stesso sacramento del battesimo è prevista ancor'oggi la pronunzia di uno o più esorcismi sul battezzando (esorcismo semplice), a testimonianza della liberazione dal peccato e dal suo istigatore, Satana 93. L'esorcismo solenne invece, chiamato "grande esorcismo", può essere praticato solo da un presbitero con il permesso del vescovo. Come prescrive il Catechismo della Chiesa cattolica "bisogna procedere con prudenza, osservando rigorosamente le norme stabilite dalla Chiesa. L'esorcismo mira a scacciare i demoni o a liberare dall'influenza demoniaca, e ciò mediante l'autorità spirituale che Gesù ha affidato alla sua Chiesa. Molto diverso è il caso di malattie, soprattutto psichiche, la cui cura rientra nel campo della scienza medica. È importante, quindi, accertarsi, prima di celebrare l'esorcismo, che si tratti di una presenza del Maligno e non di una malattia" (n. 1673). In questo breve passo dottrinale vengono posti tutti gli elementi normativi del problema: da un lato si sottolinea il fondamento giuridico di questo sacramentale, che assume i connotati di un istituto del diritto canonico, affidato secondo una precisa gerarchia a determinate persone provviste della necessaria preparazione. Il richiamo all'autorità spirituale di Gesù costituisce il fondamento teologico della pratica. Questo viene del resto ribadito in un precedente passaggio con richiamo a numerosi passi evangelici (Mc 1, 25 s.; 3, 15; 6, 7.13; 16, 17). Il discrimine posto nei confronti delle patologie mediche chiama in causa un'altra disciplina, in questo caso scientifica, con le sue regole e le sue pratiche, fissando delle competenze terapeutiche ben delimitate. La prudenza con cui vengono definiti questi confini richiama la necessità di procedere con rigore e discrezione enunciata all'inizio della citazione, marcando a questo modo implicitamente il discrimine nei confronti di credenze popolari diffuse, sospette di paganesimo, cui la Chiesa cattolica guarda tradizionalmente, perlomeno dal Concilio di Trento in poi, in maniera decisamente scettica. Un ordinamento di usanze popolari che possiamo sussumere al concetto sopraesposto di costume. Strettamente annesso a questo fenomeno vi è poi il campo della magia, anch'esso definibile, come abbiamo visto nell'introduzione, in termini normativi. Secondo studiosi come Luck (1997: 12) l'atteggiamento della Chiesa Cattolica rivela una generale tendenza "a concentrare e a istituzionalizzare i poteri magici all'interno di un mondo religioso più ampio". Partendo da un singolo fenomeno come l'esorcismo siamo giunti a definire ben cinque ordinamenti più o meno direttamente coinvolti, da quelli più ufficiali come il diritto canonico e la teologia a quelli meno istituzionali come il costume religioso e la magia sino ad uno scientifico come la medicina. In questo senso si tratta di un esempio paradigmatico di come il tessuto degli ordinamenti normativi possa risultare complesso e ricco di risvolti imprevedibili. In tutto questo coacervo di norme il diritto assume un ruolo certamente importante, ma vuoto di senso, se non viene ricollegato all'intreccio di ordinamenti esistenti nella singola società presa in esame.

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§ 7. Conclusione

Il florilegio di situazioni ed esempi prodotti nei precedenti paragrafi dimostra come il diritto sia solo una possibile strategia per regolare la condotta dei soggetti all'interno di una determinata società. Si tratta di una strategia certamente diffusa ma non necessariamente predominante. A dipendenza delle contingenze storiche e geografiche altri ordinamenti normativi non meno efficaci e potenti del diritto si affiancano o si sostituiscono ad esso, determinando un intreccio fecondo di regole che vanno dalla politica alla psicologia, dalla morale al costume, dall'economia alla metafisica. Da questo reticolo normativo non si può prescindere per spiegare il comportamento degli attori sociali. La storia del diritto in particolare ha continuamente bisogno di confrontarsi con queste differenti istanze regolatrici della vita sociale, certamente senza abdicare alla propria specificità ma senza nemmeno cadere nell'illusione pandettista o positivista, secondo la quale sarebbe possibile tracciare dei confini precisi e definitivi fra il mondo delle norme giuridiche e quello delle restanti regole sociali. Il diritto rappresenta semplicemente una fra le tante strategie di gestione della conflittualità. Esso va sempre quindi considerato nella sua contingenza storica. Non è un entità metafisica che si muove astrattamente nella storia incarnandosi qua e là a seconda delle necessità. Esso va piuttosto preso in considerazione nell'hic et nunc di una determinata società, per cui l'osservatore, giurista o storico che sia, deve essere sempre disposto ad accettare la possibilità dell'inadeguatezza o addirittura del fallimento della propria prospettiva. La storia del diritto può rappresentare uno strumento indispensabile per lo studio di determinate società, ma può anche dimostrarsi in certi casi una fantasmagorica illusione senza nessun appiglio con la realtà. Restare vigili di fronte a questo rischio permanente è a mio modo di vedere uno dei compiti più importanti ma anche più difficili della storiografia giuridica contemporanea.

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note in calce:

1 In generale sul concetto di norma cfr. ad es. Bobbio, 1994: 177 ss. e Dux, 1978: 30-128. Sul moderno dibattito attorno al fondamento delle norme, molto ricco e dettagliato Seelmann, 20012: 155 ss.

2 Così ad es. Seelmann, 20012: 72 ss. Cfr. anche Coing, 19935: 159 ss., 192 ss., 209 ss.

3 Muovendo da un approccio antropologico "si possono aggiungere, come punti di aggancio del linguaggio all'ambiente naturale e storico, nonché alle realtà profonde della psiche, i rituali, le raffigurazioni simboliche, i miti. Ed è forse soprattutto ai miti che si dovrebbe pensare, parlando di ordinamenti normativi non giuridici. Più plausibile di un'umanità che comincia dal riconoscimento giuridico, è infatti senz'altro un'umanità che nasce, si sviluppa e si regola raccontandosi favole (che non sono, s'intende, né falsità né stupidaggini). Né sembra potervi essere un ordine più antico dell'ordine dei racconti che radicano e danno senso, trasformando la terra in uno spazio umano" (Alfieri, 1995: 67). A questo proposito si veda ad es. E. De Martino, Angoscia territoriale e riscatto culturale nel mito Achilpa delle origini in Idem, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Torino 1973, pp. 261-276.

4 Secondo Alfieri (1995: 68, nota 2) "il tentativo insieme più coerente e più disperato di pensare una società senza regole (salvo quelle del linguaggio) è stato compiuto da Max Stirner". A questo proposito cfr. R. Escobar, Nel cerchio magico. Stirner: la politica dalla gerarchia alla reciprocità, Milano 1986 e A. Signorini, Stirner e la differenza, Torino 1994.

5 Regole quest'ultime che possono assumere peraltro anche una veste giuridica, come dimostra l'accordo ufficiale sull'ortografia tedesca raggiunto a Vienna nel luglio 1996 fra i Paesi dell'area germanofona ed entrato in vigore il primo agosto 1998, con non pochi strascichi giudiziari anche ad altissimo livello (cfr. il testo ufficiale in Duden, Die deutsche Rechtschreibung, XXI edizione, Mannheim/ Leipzig/ Wien/ Zürich 1996, pp. 861 ss.).

6 Analogamente alle regole grammaticali le regole sportive possono assumere una dimensione sia usuale-ludica (pensiamo alla violazione di una regola del calcio ed alla relativa sanzione arbitrale, intesa esclusivamente come sanzione di gioco, come ad es. un calcio di punizione o un calcio di rigore) che giuridica (pensiamo alle squalifiche ed alle multe inflitte dal giudice sportivo, certamente giustiziabili, o alle norme sul contratto di calciatore), come dimostra la sempre maggiore importanza che assume il cosiddetto diritto dello sport. Cfr. a questo proposito Max Kummer, Spielregel und Rechtsregel, Berna 1973; Piermarco Zen-Ruffini, Droit et sport: sponsoring, responsabilité, justice sportive, mesures provisoires, arrêt "Bosman", installations sportives..., Berna 1997. Più in generale cfr. anche Ross. 1958: 58.

7 Cfr. Bobbio, 1994: 191.

8 Cfr. a questo proposito Marie-France Hirigoyen, Le harcèlement moral. La violence perverse au quotidien, Paris 1998.

9 L'importanza della persuasione suggestiva in questi ambiti è ben descritta da Ross (1958: 346): "Gli atteggiamenti morali hanno una origine sociale, essendo inculcati in una persona dalla persuasione suggestiva di ciò che la circonda. La caratteristica della persuasione che crea la moralità, è che essa avviene nei primi anni di vita di una persona. Fin dalla culla il bambino cresce in un ambiente sociale, costituito prima dai genitori, fratelli e sorelle, e poi dai compagni di scuola e dagli insegnanti. In questo ambiente il bambino è continuamente esposto a un bombardamento di persuasioni che lo modellano secondo la comune tradizione culturale della comunità, il retaggio sociale. Le persuasioni consistono dapprima in appelli verbali: «Non mentire!», «Mantieni la tua parola!», «Non dire parolacce!», «Dividi con tuoi fratelli!», «È da vigliacco battere una persona più piccola di te». Questi appelli sono poi sorretti da altri mezzi di persuasione che esprimono approvazione e disapprovazione: lode, biasimo, punizione, isolamento dal gruppo, rifiuto di affetto e di simpatia, e così via. In questo modo il bambino cresce in una ampia rete di norme convenzionali che coprono i più diversi aspetti della vita: norme di linguaggio, di gioco, di rapporti sociali, di cortesia, e di «moralità» in senso più stretto. Queste norme sono sentite come «morali», cioè come «vincolanti», nella misura stessa in cui sono atte a combattere l'inclinazione e il piacere di una persona". Sul fondamento psicanalitico di questi fenomeni, con particolare attenzione allo sfondo criminologico, cfr. ad es. Alexander/ Staub, 1956: 30 ss.

10 Norberto Bobbio, Le scienze sociali in Italia, oggi, cit. in Barcellona, 1973: 13 s.

11 Per una critica a questa sentenza cfr. Kurt Seelmann, Kein Diebstahl an Betäubungsmitteln möglich?, in recht 15 (1997), p. 35 ss.

12 In generale sulla tutela penale del patrimonio nel contesto di negozi giuridici immorali od illeciti cfr. Felix Bommer, Grenzen des strafrechtlichen Vermögenschutzes bei rechts- und sittenwidrigen Geschäften, tesi di laurea, Berna 1996.

13 Come scrive Bommer, ibidem, p. 156 il detentore di simili sostanze non gode comunque nemmeno della protezione del possesso giusta gli artt. 926 ss. CCS o della protezione giuridica giusta gli artt. 930 ss. CCS.

14 Molto critico su questo punto Seelmann, ibidem, p. 37.

15 Non manca chi parla delle stesse norme criminali come norme giuridiche tout court. Così ad es. Benedetto Croce, Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell'economia, in Atti dell'Accademia Pontaniana, vol. 38, Napoli 1907, pp. 38-39, il quale conferisce comunque giuridicità anche al galateo, alle regole dei giochi ecc.

Da segnalare a questo proposito la condivisibile critica di Alfieri (1995: 63 ss.): "Ma vediamo cosa accade prendendo l'esempio estremo nel suo caso estremo: come si configura giuridicamente il conflitto tra l'ordinamento statuale e gli «ordinamenti» mafioso-camorristici? Un conflitto violento tra ordinamenti sovrani è, giuridicamente, una guerra: non c'è altra possibile definizione. E nel mondo moderno la guerra non è violenza pura e illimitata, ma atto giuridico assoggettato a forme e regole. Ebbene, il paradosso è che, nella particolare guerra consistente nel conflitto fra Stato e ordinamenti mafioso-camorristici, è sempre e solo lo Stato ad agire antigiuridicamente, perché non riconosce la guerra come tale e considera i propri avversari come criminali anziché come legittimi combattenti. Mafia e camorra, da parte loro, hanno un atteggiamento complessivamente più corretto, perché uccidono (cosa lecita in guerra: come si fa a parlare di omicidi?) ma in linea di massima non criminalizzano l'avversario. Sarebbe giuridicamente irreprensibile, invece, una trattativa con cui lo Stato riconoscesse il dominio di tali organizzazioni su un certo territorio. Se queste conseguenze sono inaccettabili, com'è sperabile che sia evidente, deve però esserci qualcosa di sbagliato anche nelle premesse, giacché le premesse, se assunte coerentemente, non consentono altre conclusioni. Né può essere una soluzione la tesi crociana della superiorità non giuridica, ma morale dello Stato sugli «ordinamenti» criminali: cosa garantisce che lo Stato sia in quanto tale più morale di altri ordinamenti? E come questa superiorità morale potrebbe essere indipendente dalla sua qualificazione giuridica? E comunque, il problema qui è proprio giuridico: se il diritto non offre un criterio di discrimine tra Stato e organizzazioni criminali, la stessa possibilità di riconoscere lo Stato come ordinamento giuridico di tipo particolare, diverso dagli altri, viene completamente meno. Tutto è forza, tutto è guerra: la lotta tra Stato e mafia non è diversa dalla lotta tra due Stati, o tra due mafie. Solo se c'è una diversità di qualificazione giuridica, invece, si può sia pensare alla possibilità che il diritto non sia solo forza. E che la forza dello Stato abbia dalla sua qualcosa che trascenda la mera violenza, proprio in quanto forza giuridica contrapposta ad una forza antigiuridica. [...] Sembra dunque questione di semplice buon senso concludere che il monismo statualista non è recuperabile, ma il pluralismo giuridico deve avere un freno. Al di là delle pur inevitabili sottigliezze teoriche, una soluzione empirica potrebbe non essere tanto difficile da trovare. Dopotutto, ci sarà pure un motivo per cui nessun mafioso ha mai pensato che la mafia sia «ordinamento giuridico» (e non certo perché non sappia cos'è un ordinamento giuridico!). Non sarà che anche in questo caso, come in quello del «diritto» delle società «altre», si otterrebbero risultati di sorprendente chiarificazione lasciando le cose come stanno, chiamandole col nome che hanno già, che da sole si danno?". Sul rapporto fra diritto e forza cfr. Foucault, 1975/76: passim; Brieskorn, 1990: 88 ss.; Jacques Derrida, Gesetzeskraft. Der "mystische Grund der Autorität", trad. tedesca, Frankfurt a.M. 1991. Da un profilo giusteoretico cfr. anche Ross, 1958: 57.

16 Sulle norme mafiose di Cosa Nostra molto interessante risulta la lettura dell'ordinanza-sentenza depositata nella cancelleria del tribunale di Palermo in data 8 novembre 1985, nel procedimento contro Abbate Giovanni e altri 706 coimputati, frutto dell'istruttoria condotta da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello Finuoli (ora pubblicata a cura di Corrado Stajano nel volume dal titolo Mafia. L'atto di accusa dei giudici di Palermo, II edizione, Roma 1992). Si veda in part. pp. 40-49. Esplicitamente al riguardo i giudici istruttori di Palermo parlano di un insieme di regole non scritte ma tramandate oralmente che regolamentano l'organizzazione ed il funzionamento di Cosa Nostra e che costituiscono quello che viene definito il codice di un uomo d'onore (pp. 40 s.).

17 In effetti "quanto ad atteggiamento psichico di chi comanda e a sudditanza del destinatario, un'estorsione con minaccia di morte non differisce dalla pena capitale comminata da un codice penale" (Cordero, 1978: 903).

18 Come scrive Cordero, 1978: 903 s. "un ordinamento esiste in quanto abbia dei sudditi e la sudditanza implica un atto di sottomissione, esplicito o involuto nei gesti abituali; non conta la valenza emotiva: un'adesione entusiastica equivale al riconoscimento coatto, emesso a denti stretti con la riserva mentale d'una revoca alla prima occasione; basta che il più debole accetti lo stato di fatto. Gli abitanti d'una provincia occupata, i bottegai iscritti nel ruolo fiscale d'un racket, l'imputato che si difende nel processo, sono parti d'un gioco coatto: potendo, ciascuno ne uscirebbe ma i fatti glielo impediscono, così esegue alcune mosse disciplinate dal rituale; non importa che ubbidisca docilmente, purché sia un suddito, e lo è in quanto subisca senza negarla la regola secondo cui chiunqe violi date regole incappa in date conseguenze; appena la neghi, l'ordinamento non esiste più nei suoi confronti. È un gesto catastroficamente risolutivo, da guastafeste: uscendo dal cerchio magico delle regole ha dissolto l'inlusio, «l'essere nel gioco», perciò va liquidato; smascherando il mondo normativo come una fragile finzione colpisce la «comunità giocante» (Huizinga, 1938: 31 s.)". Più ampiamente sull'idea di regola del gioco per descrivere queste situazioni, cfr. ad es. Vaccaro, 1990.

19 Sui fondamenti psicoanalitici della morale criminale cfr. Alexander/ Staub, 1956: 42 s. e 107. Riflessioni più ampie sul rapporto fra psiche, Stato e moralità in Stella, 1998.

20 Sull'importanza della fiducia nell'ambiente criminale cfr. ad es. David Nelken, Fiducia, crimine e ricerca comparata, in Giasanti/ Maggioni, 1995: 343: "La fiducia può [...] fornire la chiave per comprendere le ragioni del relativo successo dei criminali nei loro tentativi di eludere il controllo. Proprio perché essi agiscono al di fuori della legge, tutte le forme di collaborazione tra di loro si fondano in ultima analisi sulla «fiducia», anche se è normalmente rafforzata da altri vincoli, incentivi e minacce. Nel caso dei gruppi criminali organizzati si aggiunge il fattore della identificazione e dell'alleanza di tipo quasi familiare. Dove il diritto dello «Stato» non è ritenuto sufficiente a garantire la protezione di diritti fondamentali, la criminalità organizzata interviene per offrire tale protezione come uno dei suoi principali servizi. La fiducia è anche essenziale tra i criminali e i soggetti del cui appoggio essi hanno bisogno, come i politici, gli amministratori e i poliziotti corrotti, nonché esperti e professionisti o anche altri gruppi criminali (anche se spesso proprio queste connessioni si possono rivelare un punto debole)".

21 Lotta alla corruzione ancora da imparare, in Il Sole-24Ore, N. 8, 9 gennaio 2000, p. 24. Gli studi cui si fa riferimento sono di Terenzio Fava, Do ut des (1999), e di Donatella Della Porta e Alberto Vannucci, Un paese anormale (1999).

22 Il punto della moderna discussione antropologica su questo concetto in Olgiati, 1995.

23 Sulle nuove tendenze dell'antropologia culturale ed in particolare su questo spostamento dell'interesse dalle società "altre" all'agire sociale e culturale in quanto tale, compresa dunque la società contemporanea, cfr. Robert Borofsky (a cura di), L'antropologia culturale oggi, (ed. originale 1994) Roma 2000.

24 Facchi, 1995: 114 ss.

25 Così Facchi, 1995: 117.

26 Così in particolare gli studi raccolti in J. Starr/ J.F. Collier (a cura di), History and Power in the Study of Law: New Directions in Legal Anthropologie, New York 1989.

27 A questo proposito cfr. Luigi M. Lombardi Satriani, La rimozione del diritto, in Giasanti/ Maggioni, 1995: 140-159.

28 Sulla contrapposizione fra diritto egemone e popolare cfr. in part. L.M. Lombardi Satriani/ M. Meligrana, Diritto egemone e diritto popolare, Vico Valentia 1975.

29 Cfr. a questo proposito Goran Mazzucchelli, Il tempo per punire. Elementi criminologici e sociopolitici per una riforma delle pene e delle misure privative di libertà di lunga durata, tesi di laurea, Berna 1999, pp. 149-191.

30 Cfr. a questo proposito Caillois, 1967: 76 ss.

31 Cfr. in part. nella trad. ital. con introduzione di Giovanni Jervis, Eros e civiltà, Torino 1964, pp. 145 ss.

32 Cfr. ad es John F. Nash, Essays on game theory, Cheltenham 1996. Un utile approccio divulgativo a queste teorie ora in Roberto LUCCHETTI, Di duelli, scacchi e dilemmi. La teoria matematica dei giochi, Milano 2001.

33 Per un'applicazione giusfilosofica di queste teorie ed in particolare del famosissimo dilemma del prigioniero cfr. ad es. Nino, 1994: 124 ss.

34 Cfr. ad es. Ross, 1958: 345 ss.; Hart, 1961: 216 ss.; Zippelius, 19943: 24 ss.; Brieskorn, 1990: 69 ss.; Bobbio, 1965: 61 s.

35 Così Bobbio, 19692: 87.

36 Della sterminata letteratura esistente sul concetto di diritto naturale cfr. ad es. Seelmann, 20012: 141-155; Günter Ellscheid, Das Naturrechtsproblem. Eine systematische Orientierung, in Kaufmann/ Hassemer, 19946: 179-247; Coing, 19935: 198-209; Bayles, 1992: 116-122; Brieskorn, 1990: 83-88; Zippelius, 19943: 89-99; Bobbio, 1965: 127-238; Welzel, 19624: passim.

37 Cfr. Luigi Alfieri, Tutto ciò che esiste è giusto e ingiusto. La duplicità della giustizia in Schopenhauer e Nietzsche, in Hermeneutica (1988), 8, pp. 161-188.

38 Una sintesi delle più moderne teorie sul fondamento dei sistemi normativi si può trovare in Seelmann, 20012: 155-184.

39 Immanuel Kant, Die Metaphysik der Sitten (1797), edizione a cura di Hans Ebeling, Stuttgart 1990, p. 53.

40 Cfr. a questo proposito Bobbio, 1969: 86-91.

41 E qui forse si potrebbe già citare il pensiero di San Tommaso, laddove nella Summa Theologiae distingue le leggi positive in "justae vel injustae" (q. 96, art. 4), sottolineando come le prime "habent vim obligandi in foro conscientiae a lege aeterna, a qua derivantur [...] et obligant in foro conscientiae"; le seconde invece "magis sunt violentiae quam leges" per cui "non obligant in foro conscientiae" e "nullo modo licet observare", o più precisamente "nec in talibus homo obligatur ut obediat legi, si sine scandalo vel majori detrimento resistere possit" (ad 3um). Si tratta comunque di un accostamento da prendere con cautela in quanto ci muoviamo qui in un contesto storico e giuridico completamente diverso da quello moderno, per cui quando San Tommaso parla di "legge" si riferisce ad un fenomeno non certo assimilabile a quello dell'epoca di Thomasius o peggio ancora dell'ordinamento contemporaneo. Ciò non toglie che vi sia una costanza di temi e di riflessioni che va senz'altro affrontata, pur procedendo alle dovute storicizzazioni e differenziazioni. Sul diritto naturale in San Tommaso cfr. ad es. Welzel, 19624: 57-66.

42 Cfr. ad es. in Isvizzera il Messaggio del Consiglio federale a sostegno della legge federale sul servizio civile sostitutivo (LSC) del 22 giugno 1994 (94.063). Della stessa natura e in un certo senso speculare rispetto all'obiezione di coscienza contro il servizio militare, il conflitto di coscienza che ha coinvolto i volontari svizzeri durante la guerra civile spagnola, resisi colpevoli di servizio straniero e come tali condannati dai Tribunali militari al loro rientro in patria. Sulla discussione parlamentare in merito ad una loro eventuale riabilitazione giuridica, comunque negata dal Consiglio nazionale, che si sarebbe aggiunta a quella politica e morale già ufficialmente pronunciata dal Consiglio federale nel 1994, cfr. ad es. Neue Zürcher Zeitung, 8.3.2000, Nr. 57, pp. 13 e 17.

43 In generale su questi problemi, paradigmaticamente rappresentati nel mito di Antigone, interessanti riflessioni in Pontara, 1990: 5-33. Cfr. anche Zippelius, 19943: 34-44.

44 Metaphysik der Sitten, op. cit., p. 57.

45 Cfr. Bobbio, 1969: 107 s.

46 Cfr. Bobbio, 1969: 109 s.

47 Così La Torre in Nino, 1994: XII. Cfr. anche Seelmann, 20012: 85 s.

48 C.S. Nino, A Philosophical Reconstruction of Judicial Review, in Cardozo Law Review (1993), p. 818, cit. In Nino, 1994: XIII.

49 In generale su questa fattispecie cfr. ad es. Eugen Bucher, Schweizerisches Obligationenrecht. Allgemeiner Teil, II edizione, Zürich 1988, p. 683.

50 A questo proposito cfr. Bucher, ibidem, pp. 68 s.

51 A questo proposito cfr. Bucher, ibidem, pp. 69 s.

52 Secondo Ross, 1958: 62 vi sono altre situazioni in cui si manifestano infiltrazioni morali nel diritto e sono quelle, per altro diffuse nel CCS, in cui il legislatore rinvia all'apprezzamento delle circostanze del caso o all'equità: "Dove il diritto, cedendo alla pressione della tendenza morale all'adattamento concreto, attenua la sua oggettività e accetta compromessi «secondo particolari circostanze», noi parliamo di «moralizzazione» del diritto o di «equità», intendendoli come termini opposti al diritto stretto (strictum ius). Sifatti compromessi si verificano di frequente semplicemente perché le norme giuridiche autorizzano il giudice a lasciarsi guidare dagli standards morali correnti". Si tratta tuttavia di una generalizzazione problematica che collide con i criteri di applicazione di questo genere di norme sviluppati ad esempio dalla dottrina svizzera. Cfr. a questo proposito ad es. Pio Caroni, Einleitungstitel des Zivilgesetzbuches, Basel/ Frankfurt a.M. 1996, pp. 178-214.

53 Così ad es. Bucher, ibidem, p. 69 a proposito degli obblighi morali.

54 Così fa ad es. Bucher, ibidem, p. 69 s. e 255 s. Un altro interessante caso di positivizzazione della morale è offerto dalla cosiddetta riserva negativa dell'ordine pubblico svizzero contenuta nell'art. 17 della Legge federale sul diritto internazionale privato. In una recente sentenza del Tribunale federale riguardante l'applicabilità in Isvizzera di una norma mussulmana che vieta gli interessi moratori, si possono trovare in tal senso utili suggestioni (cfr. DTF 125 III 445 ss., in part. cons. c).

55 Così Bucher, ibidem, p. 68.

56 A questo proposito cfr. ad es. Kaser, 199216: 26 s.

57 Cfr. Kaser, 199216: 277 s.

58 A questo proposito cfr. ad es. Biondi, 19724: 567 s. Su una eventuale origine etrusca del potere autocratico del pater familias sui figli e gli schiavi domestici v. la bibliografia citata in Kaser, 19712: 21.

59 Cfr. Arangio-Ruiz, 196014: 475.

60 Sulle misure legislative a tutela dei figli a partire dall'inizio del I secolo d.C. cfr. ad es. Biondi, 19724: 568.

61 Cfr. ad es. Weber, 19805: 17, 63; Dux, 1978: 130 ss.; Rehbinder, 20004: 44-54.

62 Rispettivamente gli stessi sociologi del diritto hanno ben presente il problema della distinzione e del nesso fra diritto e morale. Cfr. ad es. Lévy-Bruhl, 19816: 36-38.

63 Un'analoga caratterizzazione incentrata sulla reazione sociale la troviamo in Ehrlich, 1913: 131 ff.: "Man vergleiche das Gefühl der Empörung, das einem Rechtsbruch folgt, mit der Entrüstung gegenüber einer Verletzung des Sittengebotes, mit dem Ärgernis aus Anlaß einer Unanständigkeit, mit der Mißbilligung der Tatlosigkeit, mit der Säuerlichkeit beim Verfehlen des guten Tons, und schließlich mit der kritischen Ablehnung, die die Modehelden denen angedeihen lassen, die sich nicht auf ihrer Höhe befinden. Der Rechtsnorm ist eigentümlich das Gefühl, für das schon die gemeinrechtlichen Juristen den so bezeichnenden Namen opinio necessitaatis gefunden haben. Danach muß man die Rechtsnormen erkennen".

64 Per una definizione sociologica del concetto di diritto cfr. anche Rehbinder, 20004: 44 ss., 141 ss. e Dux, 1978: 129 ss.

65 In generale sull'importanza di Max Weber per la fondazione della sociologia del diritto cfr. Treves, 19933: 142 ss.

66 Cfr. ad es. Dux, 1978: 131.

67 A questo proposito cfr. Coing, 19935: 175 s.

68 Gesammelte Werke, vol. 1, Basilea 1943, p. 60. A questo proposito cfr. Roy Garré, Fra diritto romano e giustizia popolare. Il ruolo dell'attività giudiziaria nella vita e nell'opera di J.J. Bachofen, Frankfurt a.M. 1999, pp. 213 ss.

69 A questo proposito cfr. Seelmann, 20012: 76 s.

70 In generale sul rapporto fra politica e diritto cfr. ad es. Nino, 1994: 109 ss.; Luhmann, 1993: 407 ss.; Ross, 1958: 280 ss.; Ryffel, 1969: 161 ss., nonché Uwe Wesel, Geschichte des Rechts. Von den Frühformen bis zum Vertrag von Maastricht, München 1997, pp. 47 ss.

71 Sull'importanza del Machiavelli per il nostro concetto moderno di politica e di ragion di Stato cfr. l'ottima sintesi bibliografica in Cutinelli-Rendina, 1999: 137 ss. Più ampiamente sul concetto di ragion di Stato nel Cinquecento e nel Seicento cfr. i contributi nel volume curato da Yves Charles Zarka, Raison et déraison d'Etat: théoriciens et theories de la raison d'Etat au XVIe et XVIIe siècles, Paris 1994.

72 A questo proposito si veda ad es. Cutinelli-Rendina, 1999: 151 ss.

73 Sulle circostanze politiche che hanno portato alla formula magica cfr. ad es. Martin Pfister, Die Zauberformel - Erbe der dreissiger Jahre? Der Weg zur politischen Konkordanz, in Neue Zürcher Zeitung, 8.12.1999, Nr. 286, p. 15.

74 In generale sul rapporto fra diritto ed economia cfr. ad es. Coing, 19935: 164 ss., 209 ss.; Brieskorn, 1990: 159 ss.; Seelmann, 20012: 86-94.

75 Interessante a questo proposito la lettura della Postfazione di Giuseppe Raciti alla trad. ital. di J.J. Bachofen, Le leggi della storiografia (1864), Napoli 1999, pp. 53 ss.

76 Cfr. Seelmann, 20012: 87 s.

77 Cfr. Seelmann, ibidem.

78 Sul concetto di diritto in Marx cfr. ad es. Konrad Lotter/ Reinhard Meiners/ Elmar Treptow (a cura di), Marx-Engels Begriffslexikon, München 1984, pp. 299 ss.

79 Importanti spunti di riflessione si possono trovare a questo proposito in Natalino Irti, L'ordine giuridico del mercato, Roma/ Bari 1998.

80 Quelle regole della prepotenza che fanno oggetto di un piacevole ed istruttivo saggio di Mario Capanna dal titolo Il fiume della prepotenza. Critica della ragione moderna, Milano 1996.

81 A questo proposito cfr. ad es. David Wyss, Familienheimstätte und Gült: Institute die sich nicht durchsetzen konnten, in Pio Caroni (a cura di), Eugen Huber (1849-1923). Akten des im Sommersemester 1992 durchgeführten Seminars (mit einem bibliographischen Anhang), Bern 1993, pp. 64 ss.

82 Per una sintesi ed una critica delle sue teorie cfr. ad es. Coing, 19935: 87 ss. e 127 ss.

83 Per una breve esposizione delle concezioni teubneriane e relativa critica cfr. ad es. Seelmann, 20012: 88-93.

84 A questo proposito cfr. Seelmann, 20012: 93 s. e la bibliografia ivi indicata. V. anche Dürr, 1994: 131 ss. e Denozza, 2002.

85 In generale sul rapporto fra religione, magia e diritto cfr. ad es. Uwe Wesel, Frühformen des Rechts in vorstaatlichen Gesellschaften, Frankfurt a.M. 1985, pp. 319 ss. Con attenzione al diritto costituzionale vigente cfr. anche Martin Philipp Wyss, Vom Umgang mit dem Transzendenten. Überlegungen und Anmerkungen zur Religionsfreiheit im Spiegel der neueren bundesgerichtlichen Judikatur, in recht 16 (1998), pp. 173 ss.

86 A questo proposito cfr. Luck, 1997: XIII-L. Sempre interessante inoltre la lettura di un classico come James G. Frazer, Il ramo d'oro. Della magia e della religione, trad. ital. dell'edizione ridotta del 1922, Torino 1973, vol. 1, pp. 81-98.

87 Su tutta la questione cfr. Ennio Cortese, La norma giuridica. Spunti teorici nel diritto comune classico, vol. 1, Milano 1962, pp. 1-35.

88 V. ad es. Catechismo della Chiesa cattolica, redatto dopo il Concilio ecumenico Vaticano II, Città del Vaticano 1992, nn. 2464 ss.

89 V. ad es. San Tommaso D'Aquino, De Malo, quest. 13, art. 3, (ed. a cura di Fernando Fiorentino, Milano 1999).

90 Così Antonio da Budrio cit. in Cortese, ibidem, p. 19, nota 50.

91 Cfr. Codex iuris canonici, can. 1172.

92 Cfr. Catechismo, op. cit., n. 1673.

93 Cfr. Catechismo, op. cit., nn. 1237 e 1673.

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