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Gianluca Russo*

Guicciardini, tra ‘crisi’ del diritto e ‘preistoria’ della ragion di Stato. Il paradigma fiorentino

11. In un recente saggio chi scrive ha cercato, anche col ricorso a fonti visive, di mostrare come, alla luce delle ultime acquisizioni storiografiche, il trattato che nel 1589 Giovanni Botero intitolava alla ragion di Stato rappresentasse la risposta di precisi ambienti della Curia romana controriformista alla République di Bodin e alla teoria giuridica della sovranità1. Con una strategia intellettuale lucida e originale, non subito compresa da molti prelati, il consultore per la Congregazione dell’Indice recuperava, appropriandosene, un’espressione allora tanto diffusa quanto poco chiara, invalsa verosimilmente nel drammatico contesto delle guerre d’Italia attraverso la estremizzazione delle formule giuridiche della necessità e della deroga. Al tempo stesso, però, la caricava di un significato nuovo fino a proporre, alla comoda ombra di quella, una inedita scienza dello Stato dove la dimensione giuridica – viceversa centrale nel giurista angevino che leggeva proprio nella potestà di derogare al diritto vigente la nota essenziale della sovranità – fosse pressoché assente. Prima di Botero, insomma, si era svolta un’epoca molto diversa, segnata non tanto dalla ragion di Stato quale «notitia de’ mezi atti a fondare, conservare, et ampliare un Dominio», bensì dalla sua ‘preistoria’: da quella ragione ed uso degli stati «intesa come sospensione del diritto e della ragione giuridica in ambito interstatale, espressione della crisi degli ordini etico-giuridici risultante dall’inaudita violenza delle guerre e delle relazioni estere in Italia dopo il 1494»2.

2Le osservazioni che seguono – sviluppate per la verità tempo addietro ma poi, per tortuose circostanze, non pubblicate – vogliono essere un modesto corollario di quanto espresso nella richiamata occasione recente: una breve digressione in grado di rappresentare al lettore, che per sua sventura si troverà ad inciampare in queste pagine, il momento embrionale di una riflessione da ultimo sfociata in un risultato tendenzialmente compiuto. Come sospensione o deroga al diritto, la ‘preistoria’ della ragion di Stato è infatti figlia della più ampia e generale crisi dell’universalismo medievale che, già dalla metà del Trecento, comincia a scuotere le supreme gerarchie di Chiesa e Impero quali legittime depositarie della sovranità. Si è quindi, fra Tre e Quattrocento, sviluppata lungo due direttrici precise. Da una parte la territorializzazione, ossia il processo o, meglio, i processi di costruzione e consolidamento di quelle nuove compagini di potere che sono gli ‘stati’; dall’altra la degiuridicizzazione.

3La territorializzazione ha destato qualche interesse nella recente storiografia: si è compreso, ad esempio, come al di là della sua polisemia la stessa parola ‘stato’ fosse declinata nelle scritture cancelleresche volgari a indicare un potere che si esercita su un dato spazio e che, per effetto di quello, si territorializza, a indicare, insomma, il dominio3. Seppur complementare a questa – come effettività di quello stesso potere che si esercita sul territorio4 – la degiuridicizzazione non sembra ancora del tutto conosciuta e storicamente contestualizzata dentro il laboratorio italiano del Rinascimento. Senza dubbio, il fenomeno va collegato con quella generale tendenza invalsa tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento a trattare le «cose di stato» indifferentemente alle tradizionali regole della religione, della morale e, non da ultimo, del diritto. Tale accezione ristretta va, quindi, letta come diretta manifestazione di quelle trasformazioni profonde che contemporaneamente investono, oltre alla giustizia praticata, il diritto comune in quanto diritto dotto insieme alla giurisprudenza come primato o esclusività della letteratura consiliare.

4Il modesto, e forse parziale, tentativo che queste pagine assommano è mostrare quanto un simile inviluppo di problemi non fosse affatto estraneo al personaggio – per giunta, un giurista – che, presumibilmente per primo, conia nel clima violento delle guerre d’Italia l’espressione «ragione ed uso degli stati»: Francesco Guicciardini5. Mostrare, insomma, quanto la nuova formula fosse il precipitato, verbale e concettuale, di quella precisa congiuntura storica.

52. Intorno al 1530 Niccolò Guicciardini, avvocato, chiede allo zio Francesco di sottoscrivere un consilium steso a margine di una lite fra alcuni membri della famiglia Panciatichi. Francesco, con i suoi interventi stilistici e sostanziali, riporta lo sfoggio retorico del nipote ad un modo più sobrio ed efficace di argomentare6. Della sottoscrizione colpisce la cancellazione della frase: «lex quae de sui natura abhorretincertitudinem, ut in simili ne dominia rerum in incerto essent introduxit etiam contra regulas iuris usucapionem … Ita in casu nostro».

6Le ragioni della rimozione trovano in qualche misura posto nelle massime affidate ai Ricordi C111:

7E vulgari riprendono e iurisconsulti per la varietà delle opinione che sono tra loro: e non considerano che la non procede da difetto degli uomini, ma dalla natura della cosa in sé, la quale non sendo possibile che abbia compreso con regole generali tutti e casi particulari, spesso e casi non si truovano decisi a punto dalla legge, ma bisogna conietturarli con le opinioni degli uomini, le quali non sono tutte a uno modo. Vediamo el medesimo ne’ medici, ne’ filosofi, ne’ giudici mercantili, ne’ discorsi di quelli che governano lo stato, tra’ quali non è manco varietà di giudicio che sia tra’ legisti.

8E C113:

9Erra chi crede che la legge rimetta mai cosa alcuna in arbitrio – cioè in libera voluntà – del giudice, perché la non fa mai padrone di dare e tôrre: ma perché sono alcuni casi che è stato impossibile che la legge determini con regola certa, gli rimette in arbitrio del giudice, così che el giudice, considerate le circumstanze e qualità tutte del caso, ne determini quello che gli pare secondo la sinderesi e e conscienza sua. Di che nasce che, benché el giudice non possa della sentenza sua starne a sindacato degli uomini, ne ha a stare a sindacato di Dio, el quale conosce se gli ha o giudicato o donato7.

10La revisione al consilium del nipote Niccolò risale molto probabilmente al periodo di stesura dei Ricordi8. Ma indubbiamente il tema lì diluito, la relatività della legge, Guicciardini dovette assimilarlo fin dalla formazione giovanile nello Studio patavino al seguito di Carlo Ruini e Filippo Decio ovvero durante il biennio in cui ricevette dallo Studio fiorentino l’incarico di leggere le Istituzioni giustinianee.

11Del resto già un fine precursore dell’Umanesimo come Petrarca aveva colto nella continua mutevolezza il contrassegno dello ius civile in quanto prodotto dell’uomo. Il contenuto dirompente della precoce intuizione si sarebbe al più tardi manifestato con la proposta antropocentrica del maturo Rinascimento. Un netto divario portava a separare un prima da un dopo. L’idea nuova per cui «alla cangiante storia dell’uomo» dovessero corrispondere «relazioni di vita e quindi regole differenti»9 turbava la concezione medievale del diritto come complesso di regole immanente, disponibile all’agire umano unicamente attraverso l’inventio. Scuoteva, insomma, la sua progressiva scoperta affidata al Principe equo e giusto attraverso la lex ma soprattutto al giurista di scuola mediante l’interpretatio dei testi romani con tecniche capaci, da ultimo, di inserire nel circuito dell’elaborazione dottrinale lo ius proprium, essenzialmente di matrice volontaristica. Invece altre e diverse tecniche di nuova acquisizione, dalla profondità storica alla filologia, incrinavano la secolare fiducia riposta nella compilazione giustinianea come diritto da sempre vigente. Da contenitore ordinante e specchio di armonia, specialmente il Digesto degenerava in un testo già malamente assemblato dagli stessi romani e definitivamente compromesso dalle improvvide attualizzazioni di glossatori e commentatori. La critica radicale alla tradizione esprime il sottofondo comune ai vari umanesimi di Lorenzo Valla ma anche di personaggi ingenerosamente più negletti legati alla Firenze quattrocentesca come Antonio Ivani o Bartolomeo Scala10. Quest’ultimo, cancelliere della repubblica con Lorenzo il Magnifico e giurista di formazione, nel Dialogus de legibus et iudiciis del 1483, oltre agli strali riservati anche grottescamente a Bartolo e Baldo, rilevava come nella vita quotidiana il caso alterasse gli eventi umani e la diversità emergesse costante. Dinanzi alla instabilità occorrevano ampia discrezione e autonomia di giudizio. Di certo, nella fluidità delle situazioni, il legislatore non era più in grado di ricomprendere sotto un’unica disposizione tanta diversità11.

12Gli attacchi alla giurisprudenza medievale lasciavano sul fondo un’amara verità: «quell’esigenza di ordine, prima ritenuta soddisfatta a priori dal corpus giustinianeo, come sistema ordinato e ordinante, doveva ora essere perseguita e pazientemente ricercata»12.

13Problematizzata dai letterati, nell’Italia di inizio Cinquecento l’insufficienza della legge di fronte alla molteplicità del reale comincia a circolare fra i giuristi dove, peraltro, sembra arrestarsi alla pura presa di coscienza, lontana ancora dalle robuste proposte apparecchiate da lì a poco oltralpe. Nel 1509, ad esempio, Pietro Andrea Gambari, osservando come «quotidie nova emergunt litigia et novae causae, quae clare non potuerunt per iura determinare», poneva il tema in relazione all’interpretatio del giurista13. Alcuni anni più tardi, invece, Tiberio Deciani avrebbe difeso in polemica con Andrea Alciato l’utilità per i giuristi di continuare a pubblicare i loro consilia. La varietà di opiniones sciorinate in quella letteratura restava comunque più affidabile rispetto ai frammenti sparsi nel Digesto14. Un diaframma ormai largo separava il tempo storico attuale dall’epoca dei romani. Ma è nella Firenze del revanscismo repubblicano successivo alla cacciata medicea che il profilo della mutevolezza sembra combinarsi, precocemente, con crude dosi di realismo politico. Già nel 1501, durante una pratica convocata dalla Signoria, era toccato al doctor iuris Domenico Bonsi compiere pubblica professione di fedeltà ai Signori poiché «il volere certezza di ogni cosa è impossibile et che bisogna governarsi secondo li accidenti et non volere che la città ruini per volere stare in sulla osservanza delle leggi»15.

14Prim’ancora di cristallizzare in un celebre massima la chiara impossibilità di allegare «a ogni parola … e Romani»16, pare che Guicciardini intercettasse la descritta discrasia fra casi concreti e leggi dilatata dalla delicatezza del momento politico già nello scritto del 1512, a margine della legazione di Spagna, Del modo di ordinare il governo popolare, noto anche come Discorso di Logrogno. Discutendo la giurisdizione criminale delle diverse magistrature fiorentine e giustificando la loro ampia balìa, egli osserva che se i rispettivi giudizi dovessero sempre fondarsi sulle leggi, ne deriverebbero danni irreparabili.

15Sono nella città nostra molti magistrati che hanno potestà sopra le cose criminali, de’ quali alcuni concorrono in molti casi ed ha luogo tra loro la prevenzione, alcuni sono diversi e sopra casi diversi. Capi di tutti sono li otto ed e’ conservadori di legge, perché se bene la signoria è suprema pure non la metto in questo numero, perché la è creata ancora per altri effetti, dove loro sono per questo particolarmente ed inoltre si è detto di sopra con che autorità stia bene la signoria nel criminale. Hassi dunche a vedere se la potestà e balìa che hanno questi magistrati s’ha a limitare o accrescere; e certo in quanto a tutto el criminale, eccettuati e’ delitti dello stato, non è dubio che la balìa e facultà libera che gli hanno, sta bene, perché è necessario che la punizione di questi peccati non si riduca tutta a’ consigli, ma sia fatta da magistrati particulari e’ quali è bene che abbino nel procedere la balìa ampla; perché se si avessi a andare co’ termini di ragione non se ne punirebbe quasi mai nessuno, mancando e’ modi e facultà di provare. Così se el giudicare s’avessi a fare sempremai a punto secondo le legge, nascerebbe molte difficultà, perché molti casi che sono dalli stati determinati con una medesima pena, per non potere e’ legislatori considerare ogni particulare, meritassi di essere giudicati variamente secondo la diversità delle circumstanzie17.

16Certamente colpisce la disincantata descrizione della giustizia criminale in uso presso la città fiorentina e il suo dominio dove il paradigma dell’infrazione politica, nucleo primigenio del penale egemonico, dai «delitti dello stato» appare ormai esteso e penetrato «a tutto el criminale»18. A destare, tuttavia, maggiore curiosità è il ricorso all’espressione «co’ termini di ragione». La formula è la stessa prescelta dal giurista Niccolò Altoviti, talvolta collaboratore di Guicciardini, nella pratica del 1° ottobre 1499 decisiva nel segnare la sorte del capitano di ventura Paolo Vitelli, giustiziato sommariamente su ordine della Signoria perché sospettato di complicità con i ribelli pisani. Intervenendo in quella circostanza quale portavoce del collegio dei dottori, Altoviti negò recisamente che fosse «da perdonare la vita a Pagolo Vitelli». Con la salus reipublicae minacciata, la sola via percorribile era che «non si proceda secondo e’ termini di ragione, che così non si suole nelle cose delli stati»19.

17A scorrere queste fonti non v’è dubbio che, nella Firenze allo schiudersi del Cinquecento, il penale, veicolato dal paradigma dell’infrazione politica20, fosse elevato a clipeus reipublicae e, di conseguenza, immesso di prepotenza fra le «cose di stato», subisse per prima quella degiuridicizzazione essenziale alla primitiva ragion di Stato, quale momento in cui il gruppo politico egemone «fa tacere l’ordine giuridico»21. Un processo criminale rimesso non più tanto alle rubriche penali dello statuto compilato nel 1415 ma alla dimensione extra-ordinaria e arbitraria di recenti magistrature create ad esercitare, nel declinare delle tradizionali istituzioni comunali dei consigli statutari e dei rettori forestieri, il potere effettivo del reggimento, ossia dello ‘stato’22, esprime inequivocabilmente la nuova temperie.

18La necessità improcrastinabile di non «servare» l’ordine quando sia l’ordine stesso a rischiare il sovvertimento scaturito dalla altrui disobbedienza, domina fin dalla evocativa intitolazione un altro importante scritto guicciardiniano, anche questo composto forse fra il 1512 e il 1513: Se sia lecito condurre el populo alle buone legge con la forza non potendo farsi altrimenti23. Il testo, chiaramente modellato sulla tecnica giuristica dei duplici discorsi pro e contro, sorprende per la carica persuasiva della serrata argomentazione. Prima, viene enunciata la condanna della forza.

19Questa quistione pare “prima facie” che abbi poca difficultà e poche ragione da disputarla, perché nessuna cosa è più contro alle legge e contro alla libertà della città, che è la forza. Non sono tutte le leggi fatte ad altro effetto che per rimuovere la forza e volere che la voluntà di uno uomo particulare non possa più che la ragione. Lo essere la città libera e deliberare liberamente, presuppone che la determini da sé medesima a posta sua e secondo li pare; lo usare la forza, presuppone che la abbi a regolarsi in tutto ad arbitrio di altri e nel tempo e nel modo. Chi adunche vuole condurre el populo con la forza usa uno modo contrario alla sustanzialità della libertà, e volendo conservare el buono vivere e le legge comincia a guastarle.

20Poi, con un ragionamento non molto dissimile da certi luoghi machiavelliani24, la stessa forza in principio esecrabile riesce comunque a raggiungere una soglia giustificativa.

21Da altro canto si può considerare (presupponendo che lo stato della repubblica sia in uno termine che non si riparando la conduca in una ruina certa, né si possi per le corruttele della città o divisione de’ cittadini darli remedio se non col costrignerli), che gli è pure meglio provedere con modo estraordinario alla salute pubblica che lasciarla ire in perdizione.

22Anzi, con la tenuta della respublica a repentaglio, le stesse leggi, se interrogate,

23consentirebbono in questo caso di essere violate una volta per cavare di questa violenzia la sua perpetua conservazione, le quali tutte sogliono in ogni proibizione eccettuare e’ casi della necessità ...

24«Necessitas non habet legem», si sarebbe detto volgendo il discorso libero alla lingua della giurisprudenza. E quasi a prevenire obiezioni, la forza viene persino presentata alla stregua di un corollario naturale: una deroga ammessa, «oltre alla ragione», dallo stesso ordine naturale delle cose riferibile a Dio.

25Dicono questi sacri scrittori che el modo del procedere di Dio è secondo lo ordine delle cose naturali, el quale quando non basta a condurre una cosa al fine destinato, allora, lasciati e’ modi ordinari, viene alli estraordinari, e le conduce a perfezione con miracoli e con termini sopranaturali. Così a proposito vedendo uno buono cittadino la perdizione della sua patria e conoscendo quale sia el riparo, debbe innanzi a ogni cosa pensare se e’ lo possi introdurre colle persuasione e co’ modi civili ed usitati nelle republiche; e’ quali quando non servono ed è necessaria la forza, debbe più tosto usarla che lasciare perdere el tutto, e fare un poco di violenzia breve alla legge ed alla sua libertà per conservarle lungamente.

26Il richiamo allo storico «esemplo» del legislatore spartano Licurgo segna, da ultimo, una traiettoria logica volta a legittimare un agire politico nuovo, quale quello dei recenti governi di reggimento. Ma a questo, che è in fondo cruda arte dello ‘stato’, la stessa politica tradizionale, come arte del buongoverno giuridicamente orientata, deve purtroppo attingere se vuole sopravvivere alla dura prova dei tempi, conservando se stessa in quanto «vivere politico»25.

27Quello di estremizzare, di fronte all’irreparabile, le formule pur giuridiche della necessità e della deroga, beninteso, non era la sola maniera di reagire alla crisi dei tradizionali assetti universalistici e comunali, tutt’uno quasi con il travaglio dell’ordine giuridico scaturito dalla riscoperta dei libri legales. Non bisogna infatti trascurare che proprio lo ‘stato’ fiorentino, quale espressione di un ordine politico nuovo ispirato alla concentrazione del potere e alla territorializzazione, sebbene confuso specialmente dopo la morte del Magnifico fra soluzione oligarchica e soluzione principesca, era nato ‘eversivamente’ dalla volontà di superare il tradizionale assetto medievale universalistico e comunale. Per un interprete dello ius commune come Bartolo i governi di reggimento succedutisi fra Tre e Quattrocento sarebbero stati tutti tirannici, se non propriamente ex defectu tituli – comunque la città di fatto non riconosceva superiore e in qualche contradditoria occasione aveva ottenuto persino il vicariato imperiale – di certo ex parte exercitii. Da qui la ricerca, ostacolata dai giuristi di scuola, di un attributo universalistico come la maiestas che, azionando il connesso crimen laesae maiestatis, consentisse di reprimere inevitabili elementi di antagonismo: dalle congiure dentro la città fra gli stessi uomini di ‘stato’ per il controllo effettivo del potere, alle altrettanto frequenti ribellioni dello spazio dominato di contro alla egemonia dei governanti fiorentini. Per altri, insomma, prima di uscire clamorosamente dall’ordine, senza oltretutto smentirlo, occorreva, in sintonia con le medesime istanze di ideologizzazione, ritagliare per questo nuovo ordine politico effettivamente sovrano un ordine giuridico nuovo.

28In fondo si trattava anche questa volta di sviluppare un suggestivo spunto sollecitato dal primo umanesimo, quello letterario. Nella celebre disputa sulle arti immaginata da Poggio Bracciolini, sostenendo il primato della medicina Niccolò Tignosi da Foligno rimproverava al giurista Benedetto Accolti come lo ius civile da lui difeso, oltre che disperso in una congerie di libri, non fosse neanche più riconducibile all’Imperatore. Dell’Impero, infatti, non restava che un ricordo sbiadito mentre città come Firenze potevano da tempo vantare propri iura civilia26. Così nel 1502, proprio mentre gli ambasciatori imperiali di Massimiliano I minacciavano le «iurisditioni et preheminentie» dei Fiorentini27, a ripresa di un progetto mediceo abortito nel 1494, si pensò che la creazione di un Consiglio di Giustizia, più tardi Rota, potesse fornire all’interno come all’esterno «un’immagine positiva della propria organizzazione giudiziaria» in grado di eludere facili «contestazioni di legittimità»28.

29Istituita oltretutto durante un sostenuto dibattito sulla amministrazione della giustizia a livello cittadino o centrale e in appello dalle aree del dominio, il nuovo tribunale esigeva dai cinque giudici che per tre anni vi sedevano la professionalità attestata dal solo addottoramento e non dalle tradizionali manifestazioni di nobiltà o di fede guelfa. E, novità davvero eccezionale nell’Europa di allora, introduceva l’obbligo di motivazione e pubblicità delle proprie pronunce. I motiva, depositati in via ufficiale al Proconsolo, avrebbero rappresentato una risposta alternativa al travaglio dello ius commune quale diritto dotto poco disposto, fra l’altro, a sanzionare un principio di obbligatorietà della motivazione giudiziale ritenendolo, persino, controproducente in quanto generatore di cause di nullità. In sostanza, mettendo a disposizione degli interessati le pronunce del Consiglio di Giustizia, si sarebbe tentato di reagire al momento critico giuridicamente per via però non dottrinale ma giurisprudenziale, fino a sviluppare una produzione giuridica interna, «un arsenale regionale di opinioni ufficiali», più controllabile dal gruppo politicamente egemone, a detrimento di quella esterna proveniente dagli Studi universitari29.

30Dal canto suo Guicciardini, che – forse non per caso – riservava nella giovanile prova delle Storie fiorentine un giudizio non troppo lusinghiero sul ‘grande tribunale’30, si accingeva ad offrire la sua personale risposta ai difetti di legittimazione congeniti al dominio fiorentino. Lasciando sulla soglia ogni concreta possibilità di confezionare una base giustificativa di natura legale, non restava altra via se non quella di legittimare lo ‘stato’ rimescolando, in un certo senso, la stessa sostanza del suo peccato d’origine: la violenza.

313. L’origine violenta delle nuove compagini territoriali di potere, a cominciare da Firenze, è un’idea che si incunea precoce nella riflessione guicciardiniana, fin dal già menzionato Discorso di Logrogno del 1512:

32Non è altro lo stato e lo imperio che una violenzia sopra e’ sudditi, palliata in alcuni con qualche titulo di onestà31.

33Prima però di sfociare nella forma compiuta e asciutta dei Ricordi32 – fra l’altro come appendice a significative considerazioni sul penale in via di egemonizzazione33 – l’affermazione era stata sviluppata, fra il 1521 e il 1525, nel Dialogo del reggimento di Firenze, ad accogliere infine la problematica espressione «ragione ed uso degli stati».

34Ad evocarla, non a caso, è un personaggio reale che ne fece drammaticamente esperienza quando, in violazione della recente garanzia riservata ai cives di appellare una pronuncia di morte per un crimine contro lo ‘stato’ davanti al Consiglio Maggiore34, fu giustiziato nell’agosto del 1497 con altri quattro partigiani medicei: Bernardo del Nero35. Significativamente, Guicciardini ambienta il dialogo nella Firenze del 1494, annus horribilis, con la discesa di Carlo VIII di Francia, la cacciata dei Medici, la restaurazione del governo popolare repubblicano, la ribellione di Pisa al dominio fiorentino e la prima delle guerre d’Italia. Nella finzione letteraria Bernardo è il portavoce delle idee dello scrittore, che gli affida un intervento memorabile.

35E di Pisa mi rimetto a quello che dissi di sopra, aggiugnendo che questo male che è difficile a sanare, arebbe bisogno di medicine forti, e per parlare in vulgare, di crudeltà; la quale userebbe forse uno principe o uno stato di uno, ma uno governo di populo ne sarà alienissimo36.

36Quasi in coerenza con la genesi lessicale del suo significante, lo ‘stato’ esige che si parli «in vulgare»37, al riparo dai tecnicismi latini della scientia iuris38. Dopodiché la sua sopravvivenza, come status reipublicae, viene a dipendere unicamente dalla capacità di adattamento ad un presente crudo e irrequieto, instabile. Occorre accantonare la maniera usuale di combattere, «a uso delle guerre di Italia»39, e abituarsi quanto prima a trattare gli «inimici ostinatissimi»40 come i Pisani con tecniche tanto nuove quanto spregiudicate. Sterminarli piuttosto che trarli prigionieri, fino a farne perdere la progenie. È inutile, infatti, indugiare «in su’ libri de’ filosofi»41. Se si ascolterà fin da subito la viva voce dell’esperienza, «vero modo dello imparare»42, si dovrà riconoscere una volta per tutte che non è più possibile ormai «regolare e’ governi e gli stati» alla maniera consueta, «secondo e’ precetti della legge cristiana»43, ossia in aderenza alle regole di quell’ordo iuris medievale che assomma insieme – sotto la cifra del diritto – politica, morale, religione44 e che poi, calato sulla specifica realtà vivace delle antiche civitates d’Italia, si fa, nelle officine dei giuristi dotti, civilis sapientia45.

37Il nuovo corso è tanto terribile quanto imperativo, specialmente nelle «cose di fuora», ossia riguardo al dominio, alla appendice territoriale esterna alla città egemone, dunque riguardo allo ‘stato’. Al pari del penale volto a castigare i disobbedienti che, tradendo il patto con il reggimento, rompano la fides in rempublicam, anche i rapporti fra dominante e comunità soggette complicati, fra l’altro, dal gioco di alleanze incrociate con le potenze oltramontane, vanno assorbiti fra le «cose di stato» e come tali trattati secondo logiche altre: quelle della sospensione dell’ordine.

38In che modo si potrà secondo la conscienzia fare una guerra, per cupidità di ampliare el dominio, nella quale si commette tante occisione, tanti sacchi, tante violazione di donne, tanti incendi di case e di chiese ed infiniti altri mali? E nondimanco chi in uno senato per questa ragione e non per altro dissuadessi el pigliare una impresa riuscibile ed utile, sarebbe rifiutato da tutti. Ma diciamo più oltre: in che modo potresti voi secondo la conscienzia ricevere una guerra per difesa ancora delle terre che voi possedete? Anzi se bene non vi è fatto guerra e che nessuno non ve le dimandi, come potete voi tenere el vostro dominio, nel quale, se voi considerate bene, non vi è forse niente che sia vostro, avendo voi occupato tutto o almanco la maggior parte con arme o con comperarlo da chi non vi aveva drento alcuna ragione? Ed el medesimo interviene a tutti gli altri, perché tutti gli stati, chi bene considera la loro origine, sono violenti, e dalle republiche in fuora, nella loro patria e non più oltre, non ci è potestà alcuna che sia legittima, e meno quella dello imperatore che è in tanta autorità che dà ragione agli altri; né da questa regola eccettuo e’ preti, la violenzia de’ quali è doppia, perché a tenerci sotto usano le armi spirituali e le temporali46.

39Viene, qui, al pettine il nodo della mancata legittimità: di quell’ordine politico nuovo, quale è lo ‘stato’ fiorentino, che si è costruito e consolidato nel vuoto generato dalla crisi dei tradizionali equilibri universalistici e comunali e che, soprattutto con l’avvio delle recenti guerre devastatrici, ha deviato così reiterate volte dall’ordo da far fatica a rientrarvi. Lo stesso meccanismo di costruzione del dominio su scala territoriale, basato sulla progressiva incorporazione di varie realtà urbane e rurali assoggettate militarmente, talvolta acquisite per denaro, si era mosso ben al dì delle soglie segnate dal giuridico. Lo ius commune, infatti, non contemplava l’ipotesi di un conflitto di espansione. Pertanto, da un’eventuale guerra fra due comuni cittadini non sarebbe mai potuta discendere, come conseguenza giuridicamente ammissibile, la definitiva subrogatio del soccombente ad opera del vincitore. Nei loro consilia i giuristi allegavano in proposito un commento di Bartolo alla lexHostes, ∫∫ De captivis, n. 16 (D. 49.15.24). Discutendo proprio dei rapporti tra Firenze e Pisa, entrambe civitates superiorem non recognoscentes, il giurista marchigiano, nell’eventualità di uno scontro, riteneva applicabile la disciplina della guerra relativa all’Impero cristiano – equivalente del populus Romanus del Digesto – a proposito del diritto di preda. Tuttavia, rinviando ad una correzione dell’antica disciplina civilistica invalsa per via consuetudinaria, escludeva le pratiche annesse della captivitas e della schiavitù, così da non compromettere la superioritas della città soccombente che, anzi, avrebbe continuato a godere della stessa sostanza istituzionale della dominante47.

40Fin dalla sua genesi, dunque, lo ‘stato’ si era posto oltre l’ordo e, anzi, la sistematica elusione o violazione delle sue regole ne aveva indubbiamente alimentato la crisi. Volgersi, come i fautori del Consiglio di Giustizia, alla creazione di un nuovo ordine giuridico aderente alla sostanza politica del governo di reggimento, era una via che, al di là della sua percorribilità, avrebbe richiesto i tempi lunghi di una faticosa e paziente ricerca. La condizione di continua emergenza, invece, era tale da non ammettere più dilazione alcuna. Pertanto la soluzione estrema ma obbligata che Guicciardini, con il suo alter ego del Nero, propone consiste nell’eleggere la stessa violenza conquistatrice a fondamento di fatto, extra-giuridico, del dominio e del suo vizio d’origine.

41Vedete chi volessi dirizzare gli stati alla strettezza della conscienzia dove gli ridurrebbe. Però quando io ho detto di ammazzare o tenere prigionieri e’ pisani, non ho forse parlato cristianamente, ma ho parlato secondo la ragione ed uso degli stati, né parlerà più cristianamente di me chi, rifiutando questa crudeltà, consiglierà che si faccia ogni sforzo di pigliare Pisa, che non vuole dire altro che essere causa di infiniti mali per occupare una cosa che secondo la conscienzia non è vostra. E chi non cognosce questo non ha scusa appresso Dio, perché come sogliono dire e’ frati, è una ignoranzia crassa; chi lo cognosce non può allegare ragione perché ne l’uno caso si abbia a conservare la conscienzia, nello altro non si abbia a tenerne conto. Il che ho voluto dire non per dare sentenzia in queste difficultà che sono grandissime, poi che chi vuole vivere totalmente secondo Dio, può mal fare di non si allontanare totalmente dal vivere del mondo, e male si può vivere secondo el mondo sanza offendere Dio, ma per parlare secondo chi ricerca la natura delle cose in verità, poi che la occasione ci ha tirati in questo ragionamento, el quale si può comportare tra noi, ma non sarebbe però da usarlo con altri, né dove fussino più persone48.

42Certo, la questione del dominio nella riflessione guicciardiniana resta complessa e delicata, tanto da offrire una varietà di approcci a seconda che il nostro ne parli in veste di avvocato, o di giusdicente49 o, da ultimo, di scrittore politico. È, comunque, una varietà che sembra riconducibile ad una elementare dicotomia: «da una parte la giurisprudenza, che fornisce il vocabolario con cui articolare le soluzioni ai casi concreti, dall’altra il tema dell’origine violenta dello stato, ovvero la negazione del diritto». Dietro si agita chiaramente il grande dilemma circa gli intrecci «tra formazione giuridica ed elaborazione del pensiero politico»50. Mai come nel Dialogo del reggimento di Firenze Guicciardini abbandona la scientia iuris per affermare l’idea dell’origine violenta della realtà statuale. Eppure, il formante giuridico continua a farsi sentire, a pesare, a condizionare. Tanto che nel ricercare una formula linguistica inedita capace di tenere insieme, in funzione giustificatrice, le guerre intraprese per «ampliare el dominio», i modi nuovi di condurle e, soprattutto, le crudeltà ripugnanti alla «conscienzia» ma necessarie per recuperare i luoghi ribelli restii ad essere dominati, la scelta dello scrittore cade su un sintagma tanto efficace quanto ambiguo: «ragione ed uso degli stati», appunto. È probabile che l’espressione fosse un adattamento della frase «ratio atque usus belli» tratta dal De bello gallico di Cesare. Del resto lo stesso Guicciardini evocherà al più tardi una «ragione di guerra»51. Tuttavia resta difficile non pensare ad un’associazione, anche minima, con il termine ‘ius’ da tempo tradotto come ‘ragione’ nella lingua volgare52 o, ancor più, con il lessema ‘balìa di ragione’ per tale intendendosi la facoltà riconosciuta ai governanti di «giudicare anche contro la legge o dove la legge taceva». E che tale potere fosse posto in relazione con la magistratura criminale degli Otto di Guardia i quali, a testimonianza di Goro Dati, «avevano liberà autorità contro i rei di Stato, talora fino a poter condannare a qualunque pena, ancorché la legge non condannasse»53 pare scoprire, ancora una volta, i fili sottili tessuti a congiungere l’ordo non servatus riservato ai disobbedienti, dunque ai criminali54, con la sospensione del diritto nelle «cose di stato».

43In tal senso la formula guicciardiniana messa in bocca al personaggio di Bernardo del Nero non è altro che un tentativo di risposta ai difetti di legittimità più volte richiamati. Nell’Europa di allora, infatti, stando alle regole giuridiche della tradizione, poche erano le realtà politiche che in quanto legittime depositarie di maiestas potevano reprimere il dissenso con le terrificanti scorciatoie della lesa maestà: la Chiesa, l’Impero, il regno di Francia. Oltre si discuteva fra i giuristi sopra il carattere maiestatico delle nuove formazioni statuali di potere. Il punto restava talmente controverso che lo stesso Guicciardini, quando si trattò di ricostruire nelle incompiute Cose fiorentine il processo e la condanna a morte per tradimento, nel lontano 1379, di Donato Barbadori, si riservò di consultare un apposito consilium di Baldo. Lì il giurista perugino si domandava se il crimen laesae maiestatis fosse applicabile anche a quanti macchinassero contro una città diversa da Roma e, nel caso di Barbadori, la civitas Florentiae, con esito negativo55. Né va tralasciata quella causa insorta da uno strascico della congiura dei Pazzi, patrocinata dal nostro come avvocato, dove proprio un giudice del neoistituito Consiglio di Giustizia, Pier Lodovico Saraceni da Fano, aveva sollevato più di un dubbio che attentare alla vita di Lorenzo de’ Medici significasse tecnicamente lesa maestà56.

44Insomma, se i reali titolari di maiestas avevano la loro ratio, ‘stati’ come quello fiorentino – e in sostanza pressoché tutti quelli sorti nell’Italia quattrocentesca – avevano da conquistare una loro ‘ragione’57.

454. Pur disposto a canonizzare la deroga al diritto imboccando sentieri vergini, Guicciardini non vuole o comunque non riesce a recidere del tutto i vincoli con la dimensione giuridica: un disagio latente che pare impegnarlo volta per volta in un sofferto bilanciamento tra l’habitus mentale del giurista e la cruda realtà politica. Certo ogni sforzo in tal senso sembra ormai vano nella recente sfera delle relazioni interstatali. La tragica esperienza delle guerre d’Italia depurava di giorno in giorno quella visione ottimistica, che ancora a metà Quattrocento aveva animato Paride Dal Pozzo, di circoscrivere il fenomeno bellico entro i contorni di una difficile ma percorribile razionalità giuridica58. Il dato esperienziale che il giurista napoletano aveva cercato di subordinare alle regole della ragione civile reclama ora una sua dirompente esclusività, così prepotente da rendere faticosi gli slanci in senso contrario, comunque innegabili59.

46D’altra parte non è un caso che la riscoperta rinascimentale del mito classico di Astrea avesse trovato proprio nella Firenze di Machiavelli e Guicciardini un significativo centro di irradiazione e poi di diffusione su scala europea60. Che la dea della Giustizia, da tempo, avesse lasciato la terra inorridita dalle nefandezze degli uomini e fosse tornata, per ultima, con le altre divinità in cielo esprimeva la maniera allegorica con cui esorcizzare la dura realtà: quell’armonia, tutta medievale, capace di coniugare insieme politica, morale, religione e diritto – in una parola, l’ordo – s’era smarrita forse per sempre, sconvolta dalle orrende guerre d’Italia. Adesso le leggi e la giustizia camminavano a fianco della forza o, peggio ancora, schiacciate dal suo peso61. Si attendeva quindi l’avvento di un Principe provvidenziale capace di riportare tutto nel corretto equilibrio.

47Guicciardini, che fra l’altro mai aveva lasciato la tediosa ma redditizia professione legale62, sceglieva di tornare così al diritto quando, nei giorni seguenti l’assassinio di Alessandro per mano di Lorenzino de’ Medici, fu tra quanti contribuirono a preparare l’elezione a duca di Cosimo.

48Il 9 gennaio 1537 veniva convocato il senato dei Quarantotto: il consiglio ristretto introdotto dalla riforma del 1532, espressione dell’oligarchia ottimatizia. Quasi senza opposizione, Cosimo era eletto «per capo primario della città di Firenze e suo dominio e de’ Magistrati et Officii di quella». Secondo il racconto dello storico Bernardo Segni, fu Guicciardini in persona a redigere, nella notte tra l’8 e il 9 gennaio, la provvisione di elezione, che oltre a richiamare «lo indulto e privilegio della Maestà Cesarea», prevedeva che, come già per Alessandro, venissero stabilite delle «limitazioni e dichiarazioni»63. Sarebbe stato, quindi, Guicciardini stesso ad illustrarla in senato, meravigliando i presenti su come un uomo della sua levatura potesse sottovalutare le capacità politiche del Principe neoeletto. A stupirsene fu, fra gli altri, l’amico e collega Francesco Vettori.

49Francesco, io mi maraviglio ben ora di voi, che siate stato sempre tenuto tanto prudente, a considerare tante minuzie in far questo principe. Perché se gli date la guardia, l’arme e la fortezza in mano, a che fine metter poi, ch’ei non possa trapassare un limitato segno? Io in quanto a me desidero che Cosimo sia un buon principe, e l’eleggo ancora con animo di servirlo ed onorarlo e sopportarlo, quando ei fusse ben cattivo64.

50Alle medesime conclusioni giungeva Benvenuto Cellini non appena appresa la notizia dell’avvenuta elezione:

51Hanno messo un giovane sopra un meraviglioso cavallo, poi gli hanno messo gli sproni e datagli la briglia in mano in sua libertà e messo in sun un bellissimo campo, dove è fiori e frutti e moltissime delizie; poi gli hanno detto che lui non passi certi contrassegniati termini; or ditemi voi, chi è quello che tener lo possa, quando lui passar li voglia? Le leggie non si posson dare a chi è padron di esse65.

52Dalle «minuzie», ossia dalle sottigliezze tecniche tipiche dei doctores, erano derivate quelle che furono subito definite, con un linguaggio familiare alle pratiche pattizie diffuse specialmente nei rapporti fra la città e il dominio, «capitolazioni». Con la loro accettazione Cosimo, in qualità di capo della repubblica fiorentina e giammai di duca, avrebbe dovuto sottoscrivere gli atti pubblici, a cominciare dalle leggi, insieme con i suoi «magnifici consiglieri», eventualmente sostituito da un luogotenente individuabile fra i soli cittadini fiorentini. Al Principe veniva infine concesso un appannaggio di appena dodicimila fiorini l’anno e non diciottomila, come invece era accaduto con Alessandro.

53Il personaggio qui in azione non è il Guicciardini testimone provocatorio della «ragione ed uso degli stati», ma è il Guicciardini impegnato a tradurre in pratica la sua idea del principato moderato. Fin dal discorso Del modo di assicurare lo stato ai Medici del 1516 e poi nei, pur cauti, progetti costituzionali sottoposti a Clemente VII al principio degli anni Trenta, dopo la rovinosa disfatta repubblicana, Guicciardini aveva insistito sulla opportunità che Alessandro de’ Medici fosse consigliato e che al suo ruolo di capo venissero posti dei limiti precisi. Soprattutto, a tracciare il perimetro entro il quale il nuovo potere principesco potesse dirsi giuridicamente valido e rispettoso del vivere civile quale fondamento dello status reipublicae, avrebbe dovuto essere quell’aristocrazia di saggi, sovente giuristi, dotata di propri organi istituzionali e di poteri riconosciuti, eredità della tradizione cittadina di Firenze66. È probabile che lo scrittore stesse qui pensando al proprio personale tornaconto67, ma nella sua proposta ad essere difeso è soprattutto un intero ceto intellettuale con un peso anche politico ben preciso. Non bisogna infatti tralasciare che Guicciardini fu uno di quei giuristi di estrazione sociale spesso aristocratica – come nel suo caso – nella cui attività la storiografia ha potuto intercettare l’emersione proprio nella Firenze fra metà Trecento e primo Cinquecento di una vera e propria arte di governo68.

54Certo è, che quando Cosimo I, ormai all’apogeo del suo principato, commissionerà a Giorgio Vasari di rappresentarlo, in una delle sale di Palazzo vecchio, nell’atto di preparare la presa di Siena, pretenderà dall’artista cortigiano due cose:

55l’una, che la corona et assistenza di quei consiglieri che volete metterci atorno nella deliberatione della guerra di Siena non è necessaria, perché Noi soli fummo; ma si bene vi si potrebbe figurare il Silentio, con qualche altra virtù che representassi il medesimo che i consiglieri. L’altra, che in uno di questi quadri del palco vi vedesse tutti li stati Nostri insieme, a denotare l’ampliatione et l’acquisto69.

56«Noi soli fummo», reclama fermamente Cosimo. La presenza dei consiglieri dovrebbe essere esclusa, giacché non hanno in alcun modo partecipato alla decisione70. Ma, prim’ancora di questo episodio, sono gli stessi dati biografici di Guicciardini a testimoniare le effettive capacità di erosione del Principe mediceo.

57Gli ultimi anni Guicciardini li vive osservando, dal ritiro a vita privata, il consolidamento ormai in corso del sistema cosimiano al quale aveva in qualche misura concorso. Intorno a Cosimo si sta rapidamente formando un nuovo nucleo di governo, legato al duca da profonda e diretta fedeltà, basato su uomini nuovi, provenienti perlopiù da centri minori del dominio se non da fuori: figure utili al Principe che sfruttava la loro estraneità alla vecchia aristocrazia fiorentina per modificare i pregressi equilibri di potere repubblicani. La novità risiede, soprattutto, nella rottura che questi personaggi determinano rispetto alla tradizionale figura del giurista consulente e ai sistemi di potere attivi in precedenza. Rispetto ai giuristi consulenti o di scuola, in certa misura creatori liberi e indipendenti, forti solo della propria auctoritas sapienziale riposta negli scrigni dei libri legales, i giuristi funzionari si fanno esecutori di una volontà partorita altrove, nella mente del Principe. La abituale sede di lavoro non è più lo studiolo areato o l’aula aperta dello Studio universitario, bensì uffici chiusi e silenziosi. Il pensiero, con la lettura giuridica del dato reale, è affidato non più tanto al consilium ma, nello specifico contesto fiorentino ducale, alle carte riservate della Pratica segreta o degli Archivi dell’Auditore delle Riformagioni e dell’Auditore fiscale, o delle magistrature cittadine alla cui attività essi sovraintendono71.

58Al tempo stesso, però, il sistema cosimiano vuole mostrarsi inclusivo pure verso membri di antiche famiglie cittadine, interessate alle cariche, specie a quelle ben retribuite e intercettare, così, personaggi dotati di alte e consolidate competenze di governo. Un sistema che Guicciardini accetta, tra le «crepuscolari tristezze»72 della nuova dimensione di vita campestre, solo in forza del suo amaro e disincantato realismo. Ha così modo di sperimentare, senza rigidi rifiuti e quasi con serena rassegnazione, i primi cenni di quel processo di adeguamento che avrebbe condotto il patriziato fiorentino non già a scomparire o a dimenticare la propria identità, ma ad assumere nel sistema ducale un ruolo, anche qui, ben diverso da quello in cui aveva per breve tempo sperato, quando, nella notte fra l’8 e il 9 gennaio 1537, si ritrovò a redigere la provvisione di elezione di Cosimo I. D’ora in avanti, il patriziato, con la sua quota di giuristi, avrebbe dovuto integrarsi nel nuovo ceto di governo, composito e disciplinato, senza più esercitare, e tanto meno monopolizzare, un potere discrezionale diretto. In cambio, avrebbe ottenuto tutela e protezione dei propri interessi e del proprio onore.

59In effetti, a Firenze, Guicciardini conserva una posizione di tutto rispetto. Continua a essere membro del senato dei Quarantotto. Ricorrentemente è membro del Magistrato supremo, ossia del gruppo di quattro consiglieri eletti ogni tre mesi in seno al senato e chiamati ad affiancare il duca con poteri consultivi e a sottoscriverne gli atti pubblici. Esercita anche, quando gli capita, quella carica di luogotenente che, all’elezione di Cosimo I, era stata sua cura far riservare ai cittadini fiorentini. È, inoltre, membro di quelle magistrature cittadine in cui gli esponenti dell’aristocrazia potevano continuare a svolgere funzioni di governo di qualche peso, sia pur nei limiti imposti, da un lato, dal remoto principio cittadino di rapida rotazione delle cariche, dall’altro, dalla presenza, al loro fianco, di funzionari ducali che li disciplinavano e controllavano. In questo modo, fa parte, a più riprese, degli Otto di pratica, la magistratura che fungeva da tribunale delle comunità, con giurisdizione su tutto il dominio.

60Negli anni che gli restano dopo il coinvolgimento come commissario straordinario mediceo nel riportare l’ordine a Pistoia73, Guicciardini, quando non corregge i consilia del nipote, è completamente assorbito dalla scrittura della Storia d’Italia, composta a partire dai Commentari della luogotenenza, abbozzati nel 1535. Fra le pieghe del materiale preparatorio si può forse cogliere un sintomo del bisogno inconfessato nel nostro di affrancarsi, perlomeno come storico, dai segni e dagli impacci che l’esercizio dell’avvocatura gli aveva lasciato; un foglietto allegato, a stregua di personale memorandum, al manoscritto dell’opera, con la traduzione di un brano del De oratore di Cicerone sul modo di scrivere la storia. Nella conclusione del passo annotato si legge:

61Il linguaggio e lo stile sia sciolto e fluente e scorra con una certa uniforme placidità, senza le durezze del parlare giudiziario e senza i motti pungenti dei discorsi avvocateschi74.

625. Si consuma nei termini che si è tentato di tracciare «l’intimo dramma» di Guicciardini: un dramma certamente personale, ma non solo. Per quanto straordinariamente eclettica, la sua riflessione è percorsa da una sottotraccia comune quale la presa di coscienza «della soggezione del giurista e della sua scienza a un potere che pretende di non più sottostare al diritto». Il suo è, su scala allargata, «il dramma della scissione fra politica e diritto»75. La sua «ragione ed uso degli stati», in fondo, non si risolve affatto in una teorizzazione ma resta piuttosto la disincantata registrazione di un modo dell’agire politico – e l’esperienza dello ‘stato’ fiorentino ne era prova vivente – sempre più rivolto all’impiego spregiudicato dei «modi straordinari». È questo dramma che lo porta, quasi in un tentativo estremo e intuitivamente frustrabile, semmai a teorizzare l’idea del principato temperato.

63Con la stessa tensione dovrà al più tardi fare i conti, di nuovo in uno scenario di sangue quale quello delle guerre di religione, la giuspubblicistica francese ugualmente impegnata nella faticosa ricerca di un fondamento alle pretese di uno ‘stato’ anche questo, nella sua eziologia, violento: a cominciare da Jean Bodin. Nell’impossibilità di confrontarsi apertamente con l’ingiuriato Machiavelli, cui peraltro attinge non poco, il giurista angevino, già nella Methodus, elegge fra i suoi interlocutori privilegiati il «Guicciardinus» che, «in scribenda historia» non conosce eguali, attento indagatore di quei mutamenti costituzionali che l’Italia attraversò «illis temporibus» più di qualunque altro luogo76. Con la République la risposta di Bodin al lacerante scontro confessionale e al correlato vizio d’origine dello ‘stato’ è la sovranità: termine che potrebbe aver lessicalmente mutuato da alcune occorrenze nella Storia d’Italia, la sola opera che lo scrittore fiorentino destinò alla pubblicazione seguita dai Ricordi apparsi in Francia contemporaneamente all’uscita nel 1576 della stessa République77.

64Qualificare come sovrano «il potere assoluto e perpetuo»78 verso i sudditi significava riconoscere in capo a colui che lo esercitasse, preferibilmente il monarca, la capacità di sottrarsi all’osservanza delle leggi in quanto titolare esclusivo della potestà di legiferare. All’apparenza assente, il diritto interviene invece come risorsa preziosa e irrinunciabile. Solo giuridicizzandosi, infatti, la creatura statuale estingue il peccato originale della violenza e si struttura in uno Stato che per operare avrà sempre bisogno di regole. Il suo fondamento non può che venire dalle leggi: senza, qualunque riflessione avrebbe difettato di solidità e concretezza, lasciando sulla superficie tanti «bei discorsi» privi di sostanza79. Da tale premessa Bodin fa discendere la questione essenzialmente giuridica dei limiti al potere sovrano, intercettati nelle leggi divine e naturali nonché nelle leggi fondamentali del regno80, con uno spirito non molto dissimile dall’idea guicciardiniana del principato temperato.

65Eppure, si tratta di limiti «abbastanza labili»81. E non solo per la pressoché completa indisponibilità del giurista angevino al diritto di resistenza. La porosità è in certa misura insita nella stessa nozione di sovranità, che per l’edizione in latino dell’opera Bodin sceglie di tradurre con maiestas: concetto cui resta sempre inscindibilmente connesso il suo riflesso sul terreno dell’infrazione politica, ossia il crimen laesae maiestatis quale principio di incriminazione sufficiente a sospendere l’ordine82. «Maiestas est summa in cives ac subditos legibusque soluta potestas». L’equiparazione fra sovranità e maiestas, con il forte accento sulla solutio a legibus, finisce per confermare, sia pure indirettamente, il «preteso carattere giuridicamente incondizionato del potere supremo» e, quindi, il «primato della politica al di sopra e contro il diritto positivo che dal potere stesso promana»83. Sotto questo profilo, con la République, il giurista angevino porta a compimento quella ricerca di una «civitatum conservandarum disciplina» già intrapresa con la Methodusosservando le proverbiali «conversiones» peninsulari e lasciandosi guidare nell’itinerario proprio da Guicciardini. Già in quella sede prevedeva che della nuova scienza della conservazione la giurisprudenza sarebbe stata una «particula» o meglio, la vecchia civilis sapientia, lungi peraltro dal dissolversi ma all’occorrenza sospesa, avrebbe piuttosto assunto i tratti della politica come nuova scienza ordinante84.

66Nata dal conflitto fra cattolici e protestanti e orientata dal nesso comando-obbedienza, la sovranità di Bodin sembra qui incrociarsi con «la ragione ed uso degli stati» colta come dato fattuale da Guicciardini osservatore delle guerre d’Italia e descritta quale sospensione della ragione giuridica ogniqualvolta la salus reipublicae sia minacciata da governati disobbedienti dentro o fuori la civitas, «tuorlo dello stato»85. Non è un caso che, una volta apparsa la République, alti prelati della Curia romana, preoccupati soprattutto dal problema confessionale e dalla proposta di tolleranza verso gli ugonotti, additassero alla fantomatica «setta de Repubblicani» capeggiata dal «Bodino» una ragione di Stato interscambiabile con la «regola lesbia» confermandone così l’accezione puramente derogatoria, alla frontiera tra il giuridico e il politico86.

67Fra l’altro il teorico del potere sovrano difficilmente poteva aver letto il Dialogo del reggimento di Firenze, edito soltanto nell’Ottocento: circostanza ancor più significativa giacché presta il fianco ad intendere la convergenza intellettuale fra i due come segni della stessa temperie. Sia nell’uno che nell’altro «l’intimo dramma» della scissione fra politica e diritto è avvertito ma non ricomposto o comunque non del tutto risolto a favore di un polo piuttosto che dell’altro. La stessa formula, che non trova esplicitamente spazio nella République87, della «ragione ed uso degli stati» non può certo dirsi immune da ambiguità e oscillazioni.

68Di queste ambiguità e oscillazioni ne avrebbe tratto, di lì a poco, vantaggio nel pieno della ‘crociata’ intellettuale contro Bodin, Giovanni Botero88. Sul piano linguistico la formula resterà pressoché la stessa: ragion di Stato. La rivoluzione è invece tutta contenutistica. Attingendo fra l’altro dallo stesso laboratorio concettuale del Rinascimento italiano ma rielaborando in termini molto spesso originali materiale anche guicciardiniano, il consultore per la Congregazione dell’Indice sposta il fuoco dalla deroga al sapere come tecnica governamentale volta ad ottenere obbedienza dai sudditi e, quindi, a conservare lo Stato quale dominio stabile; il tutto naturalmente in armonia con la morale cristiana89. La ragion di Stato si accinge così a lasciare la sua ‘preistoria’ per cominciare il tempo della sua ‘storia’, che poi è lo stesso della modernità e della complessa vicenda dello Stato moderno in Europa. Il balzo temporale si compie al prezzo di sacrificare definitivamente la dimensione giuridica, pressoché assente nel trattato di Botero90, a netto vantaggio della sfera politica, per quanto alla lunga la convivenza obbligata con le direttrici d’azione della Controriforma incideranno non poco sulla forza dirompente della sua affermata autonomia. Al di la di ciò, la incredibile fortuna dell’operazione compiuta dal Piemontese deve molto alla sua intuizione di partenza: l’aver colto che un potere politico, per dirsi realmente autonomo, deve escludere qualunque pretesa di insindacabilità dall’esterno e pretendere, di contro, qualunque assenza di controlli endogeni – da parte del ceto dei doctores – predisposti come limiti giuridici. A scissione avvenuta, il dramma fra politica e diritto andrà in scena con altre maschere e si snoderà lungo la vivace polemica che, per tutto il Seicento, opporrà i ‘politici’ ai dileggiati ‘legisti’91. Con questa vicenda, però, si sarà ormai nel pieno della ‘storia’, anzi al suo apice, in larga parte esterna al paradigma fiorentino ma del quale continuerà a mostrare, inconfondibili, i segni.

Articles July 3, 2023
© 2023 fhi
ISSN: 1860-5605
First publication
July 3, 2023

DOI: https://doi.org/10.26032/fhi-2023-007

  • citation suggestion Gianluca Russo, Guicciardini, tra ‘crisi’ del diritto e ‘preistoria’ della ragion di Stato. Il paradigma fiorentino (July 3, 2023), in forum historiae iuris, https://forhistiur.net2023-07-russo